Duecento anni fa nasceva il beato Federico Alberto

Nato a Torino il 16 ottobre 1820 – Ordinato sacerdote, fu dapprima cappellano di Corte, poi parroco di Lanzo Torinese. Uomo di fede e di preghiera, aperto e sensibile alle necessità di tutti, fondò le Suore Vincenzine di Maria Immacolata, oggi dette anche “Albertine”

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Beato Federico Albert

Ce n’è per tutti i gusti nella foltissima schiera di santi e beati fioriti a Torino e in Piemonte. I parroci sono due: Clemente Marchisio e Federico Albert. Questi è uno dei pochissimi – con Leonardo Murialdo, Giuseppe Marello, Michele Rua e Pier Giorgio Frassati – che nasce a Torino, primo di sei figli, il 16 ottobre 1820 da ottima famiglia della borghesia militare. Il padre Luigi è ufficiale dello Stato Maggiore del Regno di Sardegna; la mamma, Lucia Riccio, è figlia di un notaio. Grande influsso esercitano i nonni materni durante l’infanzia. A 15 anni, la famiglia lo vede e lo vuole nella carriera militare e il padre si attiva per farlo ammettere all’Accademia di Torino. Ma egli avverte la vocazione mentre prega nella chiesa San Filippo. Il padre, sorpreso e contrariato, non si oppone. A 16 anni, nell’autunno 1836, indossa la talare. Chierico della Real Cappella, si laurea in Teologia il 19 maggio 1843 e il 10 giugno l’arcivescovo Luigi Fransoni lo ordina sacerdote.

Per le spiccate doti e per la posizione altolocata del padre, nel 1847 Carlo Alberto lo nomina cappellano di corte: esercita con zelo e prudenza, non si isola ma si interessa delle necessità pastorali della città, cerca di intervenire sui bisogni dei poveri, che in gran numero accorrono dalle campagne nella capitale sperando di trovare fortuna. La povertà è drammatica e le istituzioni pubbliche non affrontano i problemi, come documenta un saggio di Camillo Benso di Cavour. Carlo Alberto tenta di affrontare la situazione, preceduto da mille esperienze e iniziative dei «santi sociali».

Soprattutto in Piemonte, anima del Risorgimento, i cattolici vivono un travaglio devastante per i conflitti fra Stato e Chiesa, tra governo liberale e diocesi torinese: è il «caso di coscienza del Risorgimento». Albert fa parte del clero coerente con il Vangelo: prega, soffre, suggerisce di smussare i contrasti e stimola i cristiani a dare alla comunità civile il meglio di sé. L’amore agli «ultimi» nasce dalla coerenza al Vangelo e si apre alle necessità della società: Giuseppe Benedetto Cottolengo per i malati emarginati e poveri; Giuseppe Cafasso misericordioso con le anime disorientate, con i detenuti e i condannati a morte; Giovanni Bosco con i giovani; Leonardo Murialdo, anima dell’impegno sociale e creatore di opere per i giovani operai che vanno difesi, moralmente e sindacalmente. Federico Albert fa parte di questa bella compagnia che ha come stella polare la «carità pastorale».

Fedele a Pio IX e all’arcivescovo Fransoni – cacciato in esilio per la sua durissima opposizione al governo liberale e alle «leggi eversive» che tolgono alla Chiesa privilegi e poteri – resta famosa la sua predica nel Castello di Moncalieri nella Quaresima del 1852, al re Vittorio Emanuele II, alla famiglia reale e alla corte. Spiegando il Vangelo dell’adultera – e il re è noto per correre dietro alle donne – parla con chiarezza: i cortigiani ridacchiano, il re apprezza l’intemerata e gli dice in dialetto torinese: «Stia attento, solo a lei consento di tirarmi i “barbìs”, i baffi». Nel drappello di preti che danno una mano a don Bosco, che nel 1848 lo incarica di predicare gli esercizi ai giovani dell’oratorio. Per due anni si dedica al ministero nella parrocchia San Carlo.

Il 9 marzo 1852 la svolta con la nomina a parroco di Lanzo Torinese, 2.500 contadini, poveri e illetterati, e piccoli commercianti. In zona pedemontana, è al centro della valle. Con poche industrie, il reddito deriva da un’agricoltura molto povera, dalle modeste attività artigianali e commerciali: il mercato attira molta gente. Il prevosto Albert interpreta la funzione di Lanzo come capoluogo delle valli e, con il suo dinamismo, ne fa il centro delle istituzioni scolastiche e sociali. Il 6 agosto 1876, presente Agostino Depretis, capo del governo, benedice la prima vaporiera Torino-Lanzo «benedicendo al progresso che è la strada di Dio che tutti avvia a migliore sorte».

Fa scrivere il suo motto «Il buon pastore dà la vita per le pecore» (Giovanni 10,11) nell’atrio della casa parrocchiale, in latino perché il destinatario è lui e non i parrocchiani. Svolge con scrupolo l’attività di «sovraintendente delle scuole comunali» e poi di «delegato scolastico mandamentale». Nel 1858 fonda l’asilo infantile; nel 1859 l’orfanotrofio per le fanciulle abbandonate; nel 1866 l’educatorio femminile con scuola elementare e corsi di francese, disegno, musica, sartoria e tessitura e per la preparazione delle maestre. La fondazione ha alto indice di gradimento e incalcolabile benemerenza perché allora, per intramontabili pregiudizi, si impediva alle ragazze di accedere all’istruzione, specie nei centri più piccoli e negli ambienti rurali, come riferiscono le relazioni ministeriali.

Si attiva con don Bosco affinché apra a Lanzo un oratorio (1864) che diventa un collegio per ragazzi. Sulla scia della «questione operaia», comprende l’importanza della «questione contadina» e nel 1873 fonda una colonia agricola per addestrare i giovani ai lavori dei campi grazie ai progressi tecnologici e per formare agricoltori onesti, religiosi ed esperti.

Accanto alle opere sociali, si impegna nelle attività pastorali. Ottimo predicatore, dedica giorno e notte alle missioni al popolo, come scrive il suo amico mons. Lorenzo Gastaldi, arcivescovo di Torino, «due, tre, quattro settimane, letteralmente tutto il dì e tutta la notte, dimentico delle sue fisiche necessità»; propone corsi di esercizi spirituali al clero e ai laici. Per assicurare continuità alle sue opere, nel 1869 fonda le Suore Vincenzine di Maria Immacolata (Albertine). Il biografo Jose Cottino rammenta che «non sono fondate con una funzione innovatrice per la prassi della Chiesa, ma per un’urgenza di carità nell’ambito locale, secondo l’apostolato del tempo». Tali rimangono senza pretese di diventare un istituto esteso nella Chiesa. Rifiuta la nomina a vescovo di Pinerolo e di Biella. La sua «carità pastorale» si fonda su assidua preghiera, che occupa molte ore della notte. Figlio del suo tempo, manifesta un rinnovato fervore per i problemi educativi e si sublima nella capacità di guidare le anime.

Muore a 56 anni cadendo da un’impalcatura di 7 metri nella chiesa San Giuseppe della colonia agricola, battendo la testa. Trasportato in casa parrocchiale, il suo stato è gravissimo: riceve gli ultimi Sacramenti, accorre don Bosco in visita all’istituto di Lanzo, spira la mattina del 30 settembre 1876. Sepolto nel cimitero di Lanzo e dal 1877 nella chiesa parrocchiale San Pietro in Vincoli, accanto all’altare maggiore dove si inginocchiava a pregare. Testimonia mons. Gastaldi: «Pastore in cui non si saprebbe quale pregio più ammirare, se la pietà, la fede, l’umiltà, la pazienza, la mortificazione dello spirito e del corpo, l’abnegazione e il sacrificio quotidiano, l’operosità, l’intelligenza, la prudenza, la dottrina, soprattutto la carità, virtù sacerdotali alle quali tutti tenevano fisso lo sguardo con dolce compiacenza, quasi gloriandosi di avere nel loro seno una perla sì brillante».

La causa di beatificazione parte nel 1926, 50° della morte. Il 16 gennaio 1953 Pio XII riconosce le virtù eroiche. Il miracolo avviene il 25 marzo 1953: Giacomo Geninatti da Mezzenile, dimesso dalla clinica di Torino perché possa morire a casa, dopo una sosta a Lanzo presso il sepolcro del venerabile, guarisce istantaneamente da irreversibile stato di «addome acuto da ostruzioni intestinali multiple, secondarie a peritonite plastica per pregressa appendicite cancrenosa con peritonite diffusa purulenta».

Alla beatificazione di Federico Albert e Clemente Marchisio, parroci fondatori, il 30 settembre 1984, in piazza San Pietro, Giovanni Paolo II dice: «La voce del Buon Pastore risuona lungo i secoli e le generazioni, raggiunge i singoli e vive nella testimonianza che il beato Federico Albert offrì come ministro di Dio, dedito al bene delle anime e ai bisogni dei poveri. È proposto come valido modello per i sacerdoti per l’approfondita vita spirituale, la costante comunione con Cristo, il generoso impegno per acquisire una solida formazione. Lo spirito di fede, l’obbedienza, la carità fecero di lui un pastore zelante, attento ai giovani e ai poveri».

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