È arrivato a Torino il barcone di Lampedusa

Testimonianza dolorosa – Sessanta tunisini soccorsi mentre passavano il Mediterraneo sull’imbarcazione esposta dall’associazione Mamre come segno vivo di chi si è salvato e di chi ha perso la vita. L’emergenza dei profughi preme alle porte dell’Europa

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A Torino non c’è il mare, ma dallo scorso 29 febbraio c’è una barca che il mare lo ha attraversato ed ora è «ormeggiata» nel grande cortile dell’associazione Mamre in Piazzale della Croce Rossa. Non c’è il mare a Torino, ma ci sono centinaia di persone che su una barca sono arrivate alle coste del nostro paese e poi in vari modi sono giunte  nella nostra città dove stanno tentando di ricominciare una nuova vita. Persone che mantengono nel cuore il dramma del viaggio, che cercano di sanare le ferite di una traversata che li ha allontanati dagli affetti, dalla propria terra, in cui hanno visto morire familiari e amici, ma che li ha preservati da ulteriori  drammi che nei loro paesi hanno vissuto per anni: violenze, fame, schiavitù.  Drammi e ferite, spesso invisibili, che l’associazione Mamre, fondata e presieduta da suor Giuliana Galli, che si occupa di etnopsichiatria, psicoterapia e sostegno psicologico, mediazione culturale e prevenzione del disagio psichico e sociale di famiglie italiane e migranti, cerca di far emergere e curare. Un’opera di sostegno multidisciplinare al male invisibile di donne, uomini e bambini, ma anche di sensibilizzazione all’accoglienza, di invito a conoscere e comprendere che cosa può spingere migliaia di persone a sfidare la morte su imbarcazioni di fortuna pur di scappare dal loro paese. Ed è proprio da questo obiettivo – quello di rendere più consapevoli le persone del dramma delle migrazioni – che è nata nella vice-presidente di Mamre, Francesca Vallarino Gancia, l’idea di far arrivare una barca da Lampedusa e di collocarla nel cuore della propria sede, aperta e visibile tutti giorni.

foto Renzo Bussio – La Voce e il Tempo – Tutti i diritti riservati

«La barca», spiega Francesca Vallarino Gancia,  «era partita dalla spiaggia di Sfax in Tunisia ed era arrivata a Lampedusa il 30 settembre 2017. Intercettata nei pressi di Cala Madonna e recuperata con un’azione di soccorso e salvataggio dalla motovedetta dei Carabinieri 808 Petracca del Maresciallo Domenico Mancuso, aveva a bordo 61 persone: 2 donne e 59 uomini, di questi 5 erano minori non accompagnati sotto i 17 anni. Tutti di origine tunisina. Arrivarono al Porto Favarolo di Lampedusa alle 19.30 in condizione di mare grosso e dopo i primi soccorsi furono trasferiti all’Hot Spot dell’isola». Una barca soccorsa proprio nell’anno in cui la stessa Vallarino era sulla nave di salvataggio Aquarius come psicologa e testimone attiva dei racconti ascoltati dalle persone salvate. E quell’esperienza, nata nello spirito di Mamre che è quello «di capire, di affrontare il fenomeno migratorio», spiega la Vallarino, «andando a conoscere il contesto di provenienza, le culture, le dinamiche», ha fatto scaturire l’idea che anche il vedere una barca per chi non è mai stato a Lampedusa, potesse essere una via di conoscenza del dramma dei migranti.

«Il barcone arrivato a Mamre», prosegue, «porta in sè un valore simbolico molto profondo ed è legno vivo perché carico delle vite e delle storie delle persone che sono state salvate, delle loro aspettative, paure, sofferenze, perdite, ma soprattutto speranze di ciascuna persona che ce l’ha fatta ad arrivare. È anche carico di memoria, la memoria della nostra storia degli ultimi anni e delle atrocità che abbiamo commesso nell’alzare muri e chiudere porti, e tutto questo ha portato migliaia di morti nell’indifferenza del nostro  mondo globalizzato dove liberamente  girano armi, soldi, droga e schiavi. Ma anche se sbarriamo loro il passaggio in terra o in mare, i popoli in fuga riusciranno sempre a sfondare muri, scalare montagne e attraversare il mare con una barca di legno. Sono capaci di lasciarsi dietro il passato per cominciare un’altra vita, anche a rischio di morire, ma sempre con la speranza di arrivare. Alla barca, arrivata senza nome, è stato dato il nome ‘speranza’ in memoria di chi ce l’ha fatta e di chi è morto di speranza».

Ci sono voluti quasi tre anni passati a scrivere richieste di permessi e motivazioni, affinchè Mamre ottenesse il relitto. Negli ultimi giorni sulla costa di Lampedusa nell’attesa del «via» sono state anche raccolte e caricate sulla barca, tra i  tanti resti «spiaggiati», decine di scarpe «come simbolo», aggiunge la Vallarino, «di un cammino che ora qui continua».

Ed è infatti proprio su quel cammino che continua, che si concentra l’impegno dell’Associazione che ricorda suor Giuliana: «prevede un’azione che è anche intervento in rete sul territorio, che coinvolge scuole, famiglie, servizi sociali, perchè senza la rete, senza il dialogo con il contesto in cui i migranti si inseriscono è difficile promuoverne l’integrazione e garantire loro un futuro sereno». Serenità e dialogo sono infatti quegli obiettivi su cui Mamre punta: il primo con  il servizio di ascolto e di supporto piscologico, professionale e multidisciplinare, e il secondo «anche grazie ad una nuova sede, inaugurata a fine 2019 », conclude suor Giuliana, «pensata con spazi più ‘aperti’, più fruibili anche dagli abitanti del quartiere di Barriera di Milano e Regio Parco, per le tante attività che i suoi volontari propongono».

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