Si scioglie la neve in montagna, in Valle Susa, si scioglie lasciando affiorare quello che per mesi ha coperto, piante, tane di animali, ma anche i corpi di chi nonostante il clima e le condizioni meteorologiche, mosso dalla disperazione ha tentato di varcare il confine verso la Francia e non è sopravvissuto. E accaduto in questi giorni – il ritrovamento di un corpo – non il primo, ma già il terzo nell’arco del mese di maggio, e probabilmente purtroppo non l’ultimo. Ed è passato poco più di un mese da quando nel santuario della Consolata l’Arcivescovo celebrava i funerali di Beauty la donna nigeriana morta a Torino per un linfoma, dopo essere stata respinta alla frontiera francese di Claviere benché malata e in gravidanza, mentre tentava con il marito di raggiungere la sorella. Parole forti quelle che allora espresse mons. Nosiglia. «Purtroppo, nel nostro mondo, che ci piace pensare civile e progredito, quel che manca spesso è proprio l’attenzione ad ogni singola persona, alle sue concrete necessità, per cui va accolta e giudicata a partire da questo valore umano e civile. La mancanza, poi, di una politica europea che assicuri una stretta collaborazione tra le nazioni confinanti e scelte conseguenti, per l’accoglienza e la libera circolazione degli immigrati e rifugiati, rendono ancora più dolorosa la loro sorte».
Dignità, valore di ogni vita qualunque sia la nazione d’origine, leggi più attente ai diritti di uomini, donne e bambini che fuggono da guerre, violenze e povertà, burocrazie più compatibili con l’esigenza di integrare e dare quanto prima opportunità di futuro a chi per anni in campi profughi ha vissuto nel limbo, sono state anche le parole, le richieste emerse da una mattinata di riflessione, confronto, testimonianza che le parrocchie dell’Unità Pastorale 9 – S. Alfonso con il Gruppo Able hanno voluto organizzare lo scorso 26 maggio sul tema dei «corridoi umanitari». Corridoi nati su iniziativa di Sant’Egidio, Federazione Chiese Evangeliche, Tavola Valdese con l’accordo del Governo Italiano e la collaborazione dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII che con il Corpo civile di pace Operizone Colomba è presente in zone di conflitto, proprio per evitare che almeno la fuga, il viaggio verso l’Europa non sia un viaggio della morte, non sia un affidarsi a trafficanti senza scrupoli, ma un vero mettersi in salvo per ricominciare e forse un giorno poter tornare nelle proprie terre martoriate dalla guerra (dal febbraio 2016 22 i voli realizzati, oltre mille persone, cristiane e musulmane, portate via soprattutto da Aleppo, Homs, Idlib, Damasco, quasi sempre via Libano).
Un convegno per festeggiare un anno dall’arrivo con i corridoi di Ali con sua moglie e i loro 9 figli a Torino (ospitati a Rivalta dalla Comunità il Filo d’Erba del Gruppo Abele) e per testimoniare che il loro viaggio in sicurezza reso possibile anche da una rete di accoglienza (nata da un appello a «Chi ama le sfide» lanciato al termine delle Messe nell’Up 9 in una domenica di gennaio) di 200 famiglie sta portando frutti, sia per la famiglia accolta che sta cercando l’autonomia (papà e un figlio stanno svolgendo tirocini lavoratovi retribuiti, gli altri figli sono inseriti con successo nei percorsi scolastici, tanti i progressi nella lingua italiana e nella gestione della famiglia in un contesto culturalmente molto diverso), ma anche per quel clima di paure e di pregiudizi che le notizie degli sbarchi portano con sé. Paure che come ha ricordato il moderatore dell’Up 9, don Davide Chiaussa bisogna riuscire ad affrontare: «Nella nostra parrocchia aiutiamo persone che da anni non riescono a risollevarsi perché è difficile poi sfuggire alla mentalità assistenziale, c’era la paura di fare promesse difficili da mantenere e anche di affrontare il mondo islamico e una cultura diversa… ma a fronte di queste obiezioni la risposta è stata che anzitutto dovevamo pensare a ciò che potevamo fare noi, perché di fronte al male che ci circonda non abbiamo altra soluzione che inventarci altre vie di bene».
Vie di bene che contrastano con quelle vie di morte, quale è spesso oggi il Mediterraneo (nel 2017 sono arrivati in Italia 119.369 migranti ma la stima dei morti lungo la rotta del Mediterraneo centrale per raggiungere le nostre coste è di 2.834). Vie di morte che chi ha voluto i «corridoi» ritiene assurde e inaccettabili, un «assurdo rischio» per uomini e donne come Ali o Mustafa (accolto a Collegno con la sua famiglia nell’ottobre scorso) che hanno scelto di essere profughi «per non combattere, per non uccidere» come ha ricordato Alessandro Ciquera di Operazione Colomba che opera nel campo profughi di Tel Abbas in Libano da dove è arrivato Ali. «Essere profughi» ha proseguito «è avere rifiutato la dinamica della violenza accettando di vedere figli crescere dove non possono andare a scuola, dove la sanità è privata dove sei sempre sotto minaccia di arresto e di violenze come accade oggi nei campi».
La sfida dei corridoi e dell’accoglienza torinese è una sfida che può incoraggiarne altre e che, come ha ricordato Sergio Durando direttore della pastorale migranti, «può servire a stimolare politiche d’accoglienza più incisive» e a contrastare «chi erroneamente» parla di ‘invasione’ come ha sottolineato il prefetto di Torino Renato Saccone che ha chiuso i tanti interventi. Prima del Prefetto sono anche intervenuti, tra gli altri Lorenzo Trucco presidente dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) che ha evidenziato il rischio spesso sottovalutato di lasciare in mano ai trafficanti l’ingresso de migranti nel nostro paese, e del sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Torino, Paolo Toso, che ha definito i «corridoi una attuazione del diritto d’asilo», di Mattia Civico, che ha ricordato come Consiglio provinciale di Trento di cui fa parte ha approvato un ordine del giorno di sostegno e di disponibilità all’accoglienza: sostiene i corridoi umanitari con il medesimo supporto di cui ha diritto ogni migrante, hanno assistenza legale, corsi di italiano, percorsi di inserimento lavorativo in stretta collaborazione con la diocesi di Trento».
«I corridoi umanitari», ha concluso il Prefetto «richiamano il valore del principio di sussidiarietà: non sono le associazioni che suppliscono lo stato, ma ruoli differenti». E a commento dei morti sulle montagne un monito: «Non è la dura legge del mare o della montagna è l’omissione di soccorso il crimine. Soccorrere è un dovere, non solo morale: viene prima il valore della vita».