Il lockdown ha congelato i matrimoni, anzi li ha sospesi nel cielo della speranza mescolando una realtà drammatica con i giusti sogni di tanti giovani. E, forse, questo pianeta sarà quello che, passata le bufera, dovrà essere scandagliato di più per capire che cosa è successo, soprattutto cosa succederà tra gli interstizi dei sentimenti delle nuove generazioni. Ne parliamo con don Ettore Signorile, vicario giudiziale del Tribunale ecclesiastico del Piemonte e della Valle d’Aosta, in pratica la nostra «Sacra Rota», recentemente riconfermato per altri cinque anni dalla Conferenza episcopale piemontese.

La diminuzione, anzi quasi l’azzeramento, dei matrimoni è una delle conseguenze collaterali del lockdown, quali gli effetti sulle cause in Tribunale?
In questo difficile anno, fatto di chiusure e di riaperture, ho avuto più tempo per riflettere e pensare. Io credo, oggi più che mai, che non siano i numeri e i tempi a fare la qualità e l’efficacia dello strumento pastorale. È invece la qualità dello strumento che concorre, insieme ad altri fattori più sostanziali, a determinare i numeri delle cause e le tempistiche del nostro lavoro. Il Tribunale ecclesiastico, come ha indicato Papa Francesco con la sua riforma, è uno strumento della Chiesa volto a tutelare il matrimonio cristiano e ad accompagnare in modo efficace le coppie in difficoltà per il fallimento della loro unione. Questo anno di pandemia non è stato solo un ostacolo al funzionamento, ma un’occasione per riprecisare natura e modalità di funzionamento dello strumento giudiziale. Il Tribunale ecclesiastico, poi, resta un luogo privilegiato per cogliere le difficoltà delle coppie e della Chiesa di fronte all’istituto matrimoniale. La diminuzione, quasi l’azzeramento, dei matrimoni, non è un effetto immediato e diretto del lockdown. Le comunità, le diocesi, le parrocchie, stanno dando prova di un eccezionale risveglio di creatività. Le nostre Chiese stanno impegnando tutte le loro energie disponibili per la cura delle persone più fragili ed esposte e delle famiglie, provate dall’isolamento forzato, da disoccupazione e indigenza. Tra le persone più fragili, come ci insegna l’Amoris Laetitia, ci sono le coppie che hanno visto il fallimento del loro matrimonio. Gli effetti del lockdown hanno delle ricadute anche sulle cause di nullità. Questo «tempo sospeso» rischia, infatti, di alimentare fatiche e angosce, specialmente quando si acuiscono le tensioni tra i coniugi, per i problemi relazionali con i figli, per la mancanza di lavoro, per il buio che si prospetta per il futuro. Gli effetti li vedremo nel prossimo futuro, al di là e ben oltre il calo di domande registrato in questo nostro tempo così difficile. Più in generale in crisi c’è in primo luogo l’accompagnamento dei giovani al matrimonio e delle giovani famiglie, rese ancor più fragili dal «restate in casa». La crisi dell’istituto matrimoniale viene da lontano ed è più profonda.
Il crollo dei matrimoni in Chiesa è evidente. Questo ha significato anche una migliore formazione ed una maggiore coscienza di chi pronuncia il sì? Come la perdurante pandemia ha ostacolato la formazione dei nuovi sposi?
La «crisi» che la famiglia oggi sta attraversando è una «crisi di identità», perché ci richiama a riaffermare il valore positivo dell’amore umano e della sessualità e a riscoprire il volto dell’uomo/donna come «una sola carne» nella distinzione sessuale della loro persona. La crisi dell’istituto matrimoniale è un effetto della generalizzata lontananza da un’antropologia cristiana del rapporto uomo/donna. Il tempo della pandemia sta evidenziando in modo tragico la crisi della qualità delle nostre relazioni familiari. Quando il Papa dice che «ci vuole coraggio per sposarsi» intende dire che occorre riscoprire un orizzonte di fede per celebrare il matrimonio in Chiesa. Occorre recuperare la bellezza del matrimonio come sacramento, cioè come la garanzia dell’esserci di Cristo nell’amore reciproco di un uomo e di una donna.
In realtà la pandemia ha messo in crisi la cornice nella quale il loro sì si esprime (le esteriorità, con il loro business: dalle bomboniere al pranzo di nozze). La pandemia ci ha richiamato all’essenziale, cioè al contenuto ossia al soggetto che è l’apertura al consortium omnis vitae (il quadro a scapito della cornice). In questo senso potrebbe avere delle ricadute positive per un passaggio da un matrimonio per convenzione ad uno per convinzione. Ma i giovani fidanzati vanno accompagnati e formati e questo è un problema che c’era già prima dell’insorgere del virus. Il Papa a più riprese ha parlato di una sorta di catecumenato al matrimonio.
Quali restano le più comuni motivazioni in chi chiede il vostro intervento?
Può sembrare scontato ma non lo è. Grazie a Dio a prevalere sono sempre di più motivazioni di coscienza o di fede. Il nostro compito è quello di essere uno strumento efficace, capace di fare luce e verità, accompagnando le persone in questo discernimento giudiziale che non ha nulla di burocratico, ma è volto al loro bene e alla salus animarum. Realtà queste che coincidono, sempre, con la più autentica felicità del loro essere persona.
Sposarsi in Chiesa in tempo di pandemia ha fatto crescere la coscienza del grande passo?
Questo potrebbe essere un auspicio, nella speranza che l’aggettivo «grande» lasci il posto a «vero». La verità del grande passo va colta dentro la coscienza di una fragilità umana, che ogni giorno ha bisogno di essere redenta. Ogni persona è creata con un infinito bisogno d’amore, ma scopre anche quanto sia «finita», cioè limitata e povera la sua capacità di amare. Ecco perché è fondamentale il rimando ad un «Altro». C’è bisogno di «Uno» che, giorno dopo giorno, salvi la preziosità del reciproco dono di sé.