Vincent Lambert, infermiere francese di 42 anni, tetraplegico e in stato di minima coscienza (condizione clinica determinata dall’evoluzione di un precedente stato vegetativo, prodotto da un incidente stradale nel settembre 2008) è morto l’11 luglio nell’Ospedale di Reims. La sua vicenda, simile per certi versi a quella dell’italiana Eluana Englaro ha catalizzato e diviso non solo l’opinione pubblica, ma la sua famiglia stessa di Lambert. Con la sua morte si chiude una disputa durata anni: ha visto coinvolte istituzioni francesi ed internazionali, nonché appunto i parenti di Lambert. Battaglia legale e dramma familiare si sono sovrapposti ed intersecati, rendendo la materia ancora più complessa e mediaticamente appetibile.
Da un lato la moglie Rachel, il nipote Francois ed i sei fratelli, i quali hanno richiesto l’applicazione della legge francese Claeys-Leonetti che disciplina le cure palliative e che prevede, oltre alla sospensione di nutrizione ed idratazione, un protocollo riguardo alla «sedazione controllata, profonda e continua» fino alla morte. Dall’altro i genitori Pierre e Viviane, i quali hanno lottato per la difesa e la tutela della vita di Lambert.
Tali alterne e contrapposte posizioni hanno visto nel tempo un iter giuridico parimenti controverso. Nel 2013, cinque anni dopo l’incidente, l’ospedale, nel quale era ricoverato, avvia il protocollo di legge per il fine vita, in accordo con parte della famiglia. Da questo momento si assiste ad un susseguirsi di ricorsi al Tar e di battaglie legali che, dapprima, hanno portato con l’intervento della Corte d’Appello di Parigi, alla ripresa delle terapie e dei supporti nutrizionali vitali, i quali infine, con un ultimo Atto della Corte di Cassazione, sono stati nuovamente interrotti causando in pochi giorni la morte di Vincent. Vani, purtroppo, sono stati i tentativi dei genitori di appellarsi con un ricorso al Consiglio di Stato, alla Corte Europea dei Diritti dell’uomo, richiamando infine la Convenzione Onu per i Diritti delle Persone con Disabilità.
Come divisa e tormentata è stata la vicenda, così lo sono state anche le reazioni alla morte di Lambert. La madre ha parlato di Crimine di Stato. Vincent – ha affermato – è morto ucciso dalla ragione di stato e da un medico che ha rinunciato al suo Giuramento di Ippocrate. Dello stesso tenore l’intervento del romanziere Michel Houellebeck sulle colonne di Le Monde: «lo Stato francese – scrive – è riuscito a fare quello per cui si accaniva da anni la maggior parte della sua famiglia: uccidere Vincent Lambert, il quale non era in preda a sofferenze insostenibili, non era neppure in fine vita e viveva in uno stato mentale particolare di cui non sappiamo nulla». Infine Papa Francesco, il quale sin dall’inizio del suo Pontificato lotta contro la cultura dello scarto: «Dio Padre accolga tra le sue braccia Vincent Lambert. Non costruiamo una civiltà che elimina le persone la cui vita riteniamo non sia più degna di essere vissuta: ogni vita ha valore sempre».
Numerosi e legittimi gli interrogativi emersi. La dignità personale è veramente misurabile in riferimento al livello di coscienza del soggetto o alla qualità delle performance manifestate?
Vincent Lambert non era un paziente terminale, ma una persona definita «in stato di minima coscienza». In chi vive questa condizione clinica permane una grave compromissione della coscienza, ma sono presenti comportamenti finalizzati e volontari e spesso la comunicazione può avvenire attraverso movimenti delle dita o battito delle ciglia.
Il professor Roberto Colombo, medico e docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore, spiega che «pur trovandosi in una condizione di grave incapacità relazionale con il mondo esterno e le persone a lui vicine (nulla potendosi dire con ragionevole certezza sulla eventuale riduzione o assenza della sua ‘coscienza interna’ o ‘profonda’), il paziente non è connesso ad un ventilatore (la respirazione è autonoma) né sottoposto a stimolazione cardiaca (il battito è spontaneo), e neppure oggetto di terapie intensive o subintensive che possano configurare una situazione clinica ed etica di ‘accanimento terapeutico’».
Sostenere pertanto che i pazienti di questo genere decadano a una forma di vita inferiore, senza valore, indegna di tutela e definirli «morti a cuore battente» di cui si può disporre liberamente, è paradossale. Altrettanto paradossale è l’esplicita volontà di interrompere ogni forma di assistenza da parte di chi dovrebbe tutelare quanti non hanno mai avuto modo di dare indicazioni previe su questa pur difficile condizione di vita.
Questo modo di fare nega la consolidata indicazione etica secondo cui il medico deve sempre agire a favore della vita del paziente, avendo unicamente cura di non sottoporlo a interventi medico-chirurgici complessi e sproporzionati. Si percorre così un pendio scivoloso che si vorrebbe da più parti estendere a tante altre patologie, quali la demenza ed il morbo di Alzheimer. Tale tendenza purtroppo è già ampiamente legalizzata in Francia e in numerose altre nazioni. Molti la ritengono utile per la società eccessivamente gravata dalla difficile gestione di pesanti cronicità create dalle moderne tecnologie sanitarie e dell’invecchiamento della popolazione. Al contrario, più è grave la disabilità, maggiore dovrebbe essere l’attenzione della collettività perché il diritto all’assistenza permane anche quando viene a mancare la possibilità di ripresa.
Ci si dimentica – ha ricordato ancora Papa Francesco – che ogni vita ha valore sempre; cinicamente si afferma che il non-trattamento è il solo modo efficace per assicurare la morte anche dei pazienti «biologicamente resistenti». L’interruzione dell’idratazione e dell’alimentazione diventa allora la strada maestra per «risolvere il problema» e per portare all’exitus in modo definito «naturale», piuttosto che continuare in «modo artificiale» una vita senza qualità e senza dignità.
È evidente che nelle scelte di abbandonare i pazienti nella condizioni descritte è predominante la teoria utilitarista secondo cui deve essere avvantaggiato nella spartizione delle risorse chi ha maggiori possibilità di mantenere o ritrovare la piena efficienza. Si accoglie l’opinione che valga la vita di qualità, cioè quella capace di garantire soggettivamente le desiderate gratificazioni.
Solo mentalità edoniste però possono catapultare nella più tetra solitudine chi vive situazioni di maggiore vulnerabilità e sostenere che l’unico sostegno compassionevole che queste cosiddette «non vite» dovrebbero aspettarsi dagli altri, sarebbe quello di essere aiutati a morire, adducendo la necessità di porre fine a inutili sofferenze.
La complessità degli scenari aperti dalla Medicina richiedono un’osservazione attenta ed una riflessione profonda. Non sempre, anche tra gli addetti ai lavori, è facile capire quale sia la cura migliore, quali le terapie più idonee per il bene di un paziente. I rapporti tra mezzi ordinari e straordinari, tra cure proporzionate e sproporzionate, richiedono un monitoraggio attento e continuo. Ogni caso si presenta diverso da un altro e pertanto le valutazioni etiche e deontologiche devono essere inevitabilmente contestualizzate. Tuttavia, riguardo al caso Lambert, si possono notare due incongruenze, la prima di tipo medico.
Vincent era affidato al reparto di Cure palliative, ma non era in fine vita, bensì in una condizione clinica stazionaria con un’attività cerebrale, seppur ridotta dai postumi dell’incidente. Nell’ospedale di Reims, anziché assicurare le terapie appropriate ad un paziente cronico ma non terminale gli hanno staccato i supporti vitali, considerati in Francia – come in Italia, dopo la legge sulle Dat – come terapie e dunque sospendibili a richiesta del paziente o del fiduciario. Nello specifico non era stato depositato nessun biotestamento e la moglie, autodefinitasi fiduciaria, ha sempre sostenuto che il marito aveva espresso la volontà di non accettare condizioni di vita quali gli stati vegetativi e condizioni similari (in analogia a quanto ribadì a suo tempo Beppino Englaro nei confronti della figlia Eluana).
Una seconda incongruenza, forse più grave, è di tipo giuridico e politico. Lambert è stato condannato a morte non perché avesse commesso un reato infrangendo la legge; la sua colpa è stata solo la sua condizione clinica, ritenuta inaccettabile per sé ed inconciliabile con una parte dei suoi parenti.
È auspicabile, per contro, che non si continui a mostrare il volto peggiore delle società viaggiando sulla cresta degli opportunismi di parte, ma ci si impegni ad attuare un vero servizio al bene comune. Il diritto alla vita e più in generale le questioni bioetiche – come ricorda la Caritas in veritate – sono un campo primario e cruciale in cui si gioca radicalmente la possibilità stessa di uno sviluppo umano integrale, mentre una società incapace di vera solidarietà è destinata a decadere sempre più in un nichilismo esasperato e distruttivo. Invece, un’assistenza sanitaria capace di sostenere adeguatamente chi è in grave difficoltà, contribuisce alla realizzazione di un mondo più vivibile perché più ricco di umanità e di fiducia nell’altro e nelle sue capacità di aiuto.
Uno Stato è grande quando difende i più piccoli, anche perché i forti sanno difendersi da soli. La speranza è che Vincent Lambert diventi un simbolo per la vita e non per la morte, con il rischio di essere strumentalizzato a supporto, il prossimo autunno, di accesi dibattiti su eutanasia e suicidio assistito nelle Aule parlamentari del nostro Paese e non solo.
Emblematica e fonte di ispirazione un’altra voce risuona dalla Francia di ieri e deve parlare ai nostri cuori e alle nostre coscienze di oggi, quella del grande genetista e pediatra Jerome Lejeune: «La qualità di una civiltà si misura col rispetto che riconosce ai suoi membri più fragili».
Giuseppe Zeppegno
Enrico Larghero