Il 20 gennaio l’intero mondo della cultura italiana rende omaggio a Federico Fellini, nel centenario della nascita. Un anniversario che riporta a galla, in tutta la sua complessità, lo straordinario universo cinematografico riverberato dall’autore de «I vitelloni» (1953), «La strada» (1954), «La dolce vita» (1960), «8½» (1963), «Roma» (1972), «Amarcord» (1973), traboccante di suggestioni oniriche e visionarie, alimentato da un beffardo slancio clownesco, ma popolato anche di profonde indagini esistenziali, di sguardi compassionevoli sui più umili e da percepibili echi trascendenti. Un universo personalissimo, divenuto punto di riferimento obbligato per molti altri cineasti, italiani e stranieri, condensato in film indimenticabili e in una miriade di premi e riconoscimenti, su tutti i cinque Oscar, di cui l’ultimo, alla carriera, attribuito al regista riminese nel marzo del 1993, poco prima della morte avvenuta il 31 ottobre dello stesso anno.
Ammiratore di Bergman e Dreyer («artisti che sono riusciti a convincermi e ad emozionarmi»), limpido e libero nello sguardo («non sono protetto da nessuna ideologia, sono veramente un cantastorie»), affascinato dalla potenza del mezzo cinematografico («l’emozione che mi guida è sempre di natura estetica») e assai meno dalla stretta logica narrativa («fare un film è come fare un viaggio, ma il mio sogno è fare un viaggio senza sapere dove andare, magari senza arrivare in nessun posto»), Fellini ha sempre scansato ogni tentativo di incasellamento, non solo politico ma anche di natura confessionale. «La mia parte immatura, monellesca, ribelle”, diceva, «mi spinge naturalmente a guardare con ammirazione all’aspetto forte di queste visioni, al rigore, alla consapevolezza, ma nello stesso tempo avverto la presenza di qualcosa che per me sarebbe soffocante. Mi riconosco invece in una religiosità fatta di solidarietà con le forze più contraddittorie, pericolose, conturbanti dell’esistenza».
Parole che sembrano scaturire dalle vicende raccontate ne «La strada», dove l’ingenua Gelsomina (Giulietta Masina, moglie di Fellini) viene venduta a Zampanò, rozzo girovago che si esibisce nei paesini con giochi di forza e che la usa e ne abusa, fino a quando Zampanò uccide il Matto, equilibrista filosofo, e Gelsomina lo abbandona. È il film che diede fama internazionale a Fellini: Leone d’argento a Venezia, due Nastri d’argento, Oscar per il migliore film straniero. Una picaresca escursione attraverso i paesaggi dell’Appennino centrale, ma soprattutto una parabola cristiana sul peccato, un apologo vibrante sulla condizione umana in generale e della donna in particolare.
Nella sua febbrile curiosità, nell’irrequietezza creativa, nella ferma refrattarietà ad ogni etichetta, Fellini, in effetti, non si è mai mostrato insensibile al soffio della spiritualità. Il pulsare lancinante della pietas ne «La strada», d’altronde, è stato evidenziato dallo stesso Papa Francesco, nel 2013, durante l’intervista concessa a «La Civiltà cattolica»: «’La strada’ di Fellini è il film che forse ho amato di più. Mi identifico con quel film, nel quale c’è un implicito riferimento a san Francesco». Nel 1957, poi, dopo aver girato anche «Il bidone» (1955) e, in quell’anno, «Le notti di Cabiria» (il suo secondo Oscar), Fellini scriveva a padre Charles Reinert, gesuita svizzero: «Mi trovo spesso di fronte a sofferenze e sventure che superano i limiti della nostra sopportazione. È allora che sorge l’intuizione e la fede nei valori che trascendono la nostra natura. Non bastano più il grande mare e il cielo lontano che amo nei miei film: oltre il mare e oltre il cielo, sia pure attraverso l’urlo di un’angoscia o la dolcezza di una lacrima, è intravisto Dio, il suo amore, la sua grazia, non tanto come scatto di fede teologica, ma come profonda esigenza d’anima».
Non è un caso, allora, che durante la preparazione de «La dolce vita», in un colloquio con il giornalista Gideon Bachmann, il regista riminese dicesse: «La sensazione che provo è questa: cercare, prima di tutto, di dire qualcosa su di me e, facendo questo, cercare di trovare una salvezza, una strada che mi conduca a qualche significato, a qualche verità, a qualcosa che sarà importante anche per gli altri. Mi piace quella stimolante combinazione tra lavorare insieme e vivere insieme che il cinema offre. Ogni ricerca che un uomo svolge su se stesso, sui suoi rapporti con gli altri e sul mistero della vita è una ricerca spirituale e, nel vero senso del termine, religiosa».
In realtà mai come per il lungometraggio con Marcello Mastroianni e Anita Ekberg quei «segni di un’ansia di redenzione che la galleria dei ‘mostri’ felliniani lasciava trasparire», come scrive Antonio Costa in «Federico Fellini. La dolce vita», sono stati sovrastati, quando non travisati, dal ben noto vortice di polemiche, attacchi, accuse che piovvero addosso al film e al suo autore, soprattutto all’interno del perimetro cattolico, con le critiche de «L’Osservatore Romano» e la stroncatura della stessa «Civiltà cattolica». Critiche smussate e rimeditate, a distanza di anni, ma all’epoca roventi. In ogni caso, «affresco sociale», «opera-mondo» o «film-rotocalco», che dir si voglia, «La dolce vita», anche a sessant’anni dalle prime proiezioni (Centro San Fedele, Milano, 30 gennaio 1960; Cinema Fiamma, Roma, 3 febbraio 1960; Cinema Capitol, ancora Milano, 5 febbraio 1960), non cessa di interrogare le coscienze degli spettatori. «’La dolce vita’ rappresenta in qualche modo un bilancio di tutto ciò che Fellini aveva fatto fino a quel momento», ha scritto ne «Il vero Fellini» padre Virgilio Fantuzzi, gesuita e critico cinematografico della «Civiltà cattolica», scomparso lo scorso settembre, amico personale di Fellini, «se i film precedenti possono essere paragonati ad altrettante viae crucis percorse da quelli che Pasolini chiamava ‘sporchi crocifissi senza spine’, anche ‘La dolce vita’, alla sua maniera, lo è: vi si contemplano le tappe del cammino doloroso di un peccatore che riflette sulla propria inadempienza nei confronti dei doveri che la vita gli propone. Cosa può fare un peccatore se non confessare in pubblico, con spargimenti di lacrime, i suoi peccati?».
Palma d’oro al Festival di Cannes 1960, «La dolce vita», come ben sappiamo, è il ritratto sfaccettato di un’Italia che, dopo gli anni ‘50, perde la sua ‘innocenza’ nei locali di via Veneto, tra paparazzi e divismo, benessere economico e decadenza morale. Fellini, con Tullio Pinelli ed Ennio Flaiano (e Pasolini, non accreditato), fa muovere in lungo e in largo, nelle strade di Roma, il personaggio interpretato da Mastroianni, giornalista evanescente, viveur insoddisfatto, intellettuale meschino che vive nella mondanità (e sulle spalle di essa), in una vana ricerca di amore e di felicità. Come ha scritto Alberto Barbera, direttore della Mostra di Venezia, «La dolce vita» è «uno dei pochi lavori per il cinema che siano assurti a metafora di un momento storico determinato, cartina di tornasole di una condizione etica prima ancora che epocale, rappresentazione insuperata dell’Italia e degli italiani alla vigilia del grande boom, del quale seppe non solo pronosticare l’avvento ma la fine stessa, inscritta nel dna di una società malata, in quanto priva di anticorpi e moralmente fragile».
Un altro gesuita, padre Nazareno Taddei, su «Letture» del marzo 1960 scrisse una recensione favorevole. Con «La dolce vita» Fellini «voleva parlare della spiritualità del cristianesimo. Ma rimase talmente turbato e amareggiato da quell’accoglienza che nel film successivo, ‘8½’, film pagano all’acqua di rose, se la prese con la Chiesa ufficiale». Un film difficile da girare, «8½», nella realtà e nella finzione, con un regista (ancora Mastroianni) in crisi esistenziale e professionale: un autoritratto in forma onirica, da parte di Fellini, sulla confusione creativa e sul disordine della vita, un catalogo incessante di emozioni e deviazioni, affetti e difetti, verità e menzogne, vincitore dell’Oscar. Il terzo. La quarta statuetta Fellini la riceverà per «Amarcord», rivisitazione della Rimini dei primi anni ’30, col fascismo trionfante, l’apparizione notturna del transatlantico Rex, il passaggio delle Mille Miglia, la visita allo zio matto e la bella Gradisca. Il ritorno in Romagna, vent’anni dopo «I vitelloni», con un film sulla memoria e, in parte, sulla nostalgia, nutrito di umorismo, buffoneria, malinconia.
Dopo arriveranno ancora, tra gli altri, il «Casanova» (1976), «Prova d’orchestra» (1979), «E la nave va» (1983)», e «La voce della luna» (1990), l’ultimo lungometraggio. Ma il talento cristallino di un «grande Pinocchio che per fortuna non è mai divenuto un bambino perbene» e l’energia creativa di un uomo che aveva l’onestà e insieme la presunzione di definire se stesso «un artigiano che non ha niente da dire, ma sa come dirlo», erano già state consegnate da tempo, su un ideale tappeto rosso, alla storia del cinema.