Festa del beato Frassati, la Messa in Duomo

Sabato 4 luglio – Alle 18 nella Cattedrale di Torino l’Arcivescovo mons. Cesare Nosiglia ha presieduto la Messa in onore del beato Pier Giorgio Frassati in occasione della festa liturgica a 95 anni dalla morte dell'”uomo delle otto beatitudini”. GALLERY

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Beato Pier Giorgio Frassati

Sabato 4 luglio alle 18 nella Cattedrale di Torino l’Arcivescovo mons. Cesare Nosiglia ha presieduto la Messa in onore del beato Pier Giorgio Frassati in occasione della festa liturgica. GALLERY

«Ore 7 (di sera) irreparabile sventura. Povero san Pier Giorgio! Era santo e Dio l’ha voluto con sé». Così, 95 anni fa, il 4 luglio 1925, annota sul calendario di cucina la sua grande amica Ester Pignata: la cuoca anticipa di quasi un secolo il giudizio di santità dello «studente delle otto beatitudini»: Torino auspica che arrivi presto il riconoscimento del miracolo e la canonizzazione.

«Era veramente un uomo, quel Pier Giorgio Frassati, che la morte, a 24 anni, ghermì e rapi crudelmente, veloce come un ladro frettoloso. Ciò che si legge di lui è così nuovo e insolito, che riempie di riverente stupore anche chi non divideva la sua fede. Giovane e ricco, aveva scel­to per sé il lavoro e la bontà. Credente in Dio, professava la sua fede con aperta manifestazione di culto, concependola come una milizia, come una divisa che si indossa in faccia al mondo, senza mutarla con l’a­bito consueto, per comodità, per opportunismo, per rispetto umano».

Muore in corso Galileo Ferraris 70 alla vigilia della laurea in ingegneria. Novantacinque anni fa tutti, credenti e non, lo considerano un giovane controcorrente, un eroe, un santo. Come Filippo Turati, uno dei fondatori del Partito socialista. Su «La giustizia» dell’8 luglio scolpisce: «Convintamente cattolico e capo della  gioventù universitaria della sua città, sfidava i facili scherni degli scettici, dei volgari, dei mediocri partecipando alle cerimo­nie religiose. Quando tutto ciò è manifestazione tranquilla e ferma del proprio convincimento, e non esibizione ostentata per altri scopi, è bello e onorevole. Quel giovane cattolico era un cristiano e traduceva le sue opinioni mistiche in vive opere di bontà umana, in atti costanti di pietà. Si può valutare diversamente l’efficacia sociale della carità, ma non si può disconoscerne il pregio quando essa è esercitata con cuore puro, non come un narcotico, ma co­me un’assistenza immediata alla sventura, senza altri fini o secondi fi­ni che la espressione di un dovere sinceramente sentito e di un amore fraterno».

«Alla notizia della morte, il vecchio canonico Giuseppe Allamano pianse» testimonia don Nicola Baravalle, suo secondo successore come rettore della Consolata: «Gioiva del bene compiuto dagli altri e soffriva immensamente per le offese al Signore. Era l’anima di tutti, recitava il rosario, intonava le litanie». Allamano e Frassati sono a fianco dell’arcivescovo Giuseppe Gamba, durante il suo ingresso e si vedono alla Consolata per coordinare l’azione caritativa.

La morte del giovane commuove l’Italia. Ne parlano i giornali. «La Stampa» del 5 luglio annota: «Nel rapire alla vita e alla famiglia questo giovane di 24 anni, valido e sano come un alpino delle nostre valli e buono d’una bontà commovente di piccolo santo, la morte è stata poco meno che fulminea, quasi avesse orrore della propria opera spietata. Pensiamo alla patria della sua anima, la fonte non terrena del suo pensiero, il rifugio sicuro della sua esistenza più alta. Viveva nella verità come non ne fosse mai uscito. Era in lui una vena di misticità così pura e profonda, che lo aveva reso estraneo a ogni benessere e a ogni fortuna. Nato fra le ricchezze, aveva l’anima francescana della povertà. Le sue mani non erano fatte per raccogliere ma per distribuire. La sua anima non era fatta per godere, ma per vedere altri godere. Un uomo fatto, con una solidità morale e rettitudine d’antica tempra pie­montese: anima di fanciullo in un carattere di stampo virile. Camminava nel giusto con lo stesso passo franco e sicuro, sen­za ritardi, senza soste, senza mollezza. Il suo corpo e la sua ani­ma apparivano ai nostri occhi e al nostro pensiero come fusi in una sola espressione: il suo discorso era lo spec­chio limpido del suo sentimento e del suo spirito. I più anziani di redazione, che lo avevano tenuto sulle ginocchia, lo avevano accompagnato per mano lungo i viali e pei giardini e le colline, lo consideravano come il bambino e il fanciullo di un tempo». Le maestranze del quotidiano offrono al circolo universitario «Cesare Balbo» mille lire per i «poveri protetti da Pier Giorgio»

La sorpresa, per famiglia e per Torino, è la folla sterminata ai funerali celebrati il 6 nella chiesa parrocchiale della Crocetta. Un trionfo. Una marea incontenibile, vecchi e giovani, poveri e ricchi fianco a fianco, da ogni parte della città, specie dai quartieri poveri, richiamati non dal cogno­me Frassati, ma dal nome Pier Giorgio. La folla blocca i tram. I gio­vani fucini por­tano a spalle la bara che sfila davanti alla moltitudine che invade via Marco Polo e corso Orbassano (oggi Einaudi) e devono allungare il per­corso. Molti cercano di tocca­re la bara. L’amico Marco Beltramo Ceppi: «Mentre avanzavamo in mezzo alla folla venne verso di noi un vecchio assistito, dal passo incerto, appoggiato a una bambina: con il gesto tremolante dei ciechi protese la mano fino a toccare il legno, segnandosi con un segno di croce»: uno dei suoi molti bene­ficati. Durante un cambio dei portatori, il feretro vacilla e Alfredo Frassati, con disperata tenerezza, allunga la mano per impedirne la caduta.

Gli amici lo depongono in chiesa, di fronte al­l’altare, e poggiano i volti cerei sulla bara, immobili per diversi minuti. Narra papà Alfredo: «Le lettere che ricevemmo e ciò che ci dissero amici e sco­nosciuti costituirono una rivelazione imponente e sublime, che ci tra­volse quanto la sua scomparsa». Scrive un biglietto ad Alcide De Gasperi: «Pier Gior­gio apparteneva al tuo partito, come alla tua fede» e rievoca le parole di Santa Caterina: «Si faccia l’amara volontà di Dio». Giovanni Giolitti telegrafa al padre: «Leggo la tremenda notizia. Ne sono esterrefatto come se fosse colpito uno dei miei. Non trovo parole di conforto. Ti abbraccio».

«I funebri di un giovane caro a Dio» commenta mons. Giovanni Battista Pinardi, vescovo-parroco di San Secondo. Scrive il giornalista Luigi Ambrosini su «La Stampa» del 7 luglio: «Una grande bontà diffusa nel dolo­re comune, un desiderio di pace che non riusciva a esprimersi era nel­la profonda angoscia della gente. Mescolata a nobili e borghesi, quella gente semplice arrivava dalle zone più povere, dalle case di ringhiera, dalle soffitte malsane con buglioli maleodoranti, dai sottoscala della società che quel ragazzone frequentava per portare conforto e aiuti trascinando carretti e correndo negli angoli più nascosti. Nel suo ultimo viaggio è seguito da una folla di amici e di ignoti, gente senza nome e persone notissime e illustri. Su tutti ha diffuso la sua consolata e armoniosa fede. La sua anima, viva più di quanto era vivo, alitava su tutti, si levava tra i veli del pianto, al di sopra della sventura. Le opere che compiva in silenzio, con la sua scomparsa escono dal silenzio».

«Il Momento» profetizza: «Rimarrà nel ricordo imperitu­ramente come una delle più belle e più schiette figure del mo­vimento cattolico giovanile». Su «Il Corriere» il 7 luglio il salesiano don Antonio Cojazzi scrive: «Affiorano alla memoria certi versi d’una bal­lata del Déroulède: “Si parlerà di lui a lungo, nei palazzi do­rati e nelle soffitte squallide”. Egli vivrà più a lungo che non le glorie che si basano sulla forza o sulla ricchezza o sul genio. Scriverò la sua vita quando molto di ciò che è ignoto sarà palesato e di ciò che è coperto sarà svelato». Il berlinese «Vossische Zeitung»: «Era un giovane particolarmente amabile e mostrava uno straordinario interesse per tutte le questioni politiche ed econo­miche. Durante la permanenza in Germania, si era acquistata la più viva simpatia delle persone che frequentavano casa Frassati. A Berlino i circoli politici e diplomatici hanno di casa Frassati un ammirevole e grato ricordo».

Rivela Ubaldo Leva, cronista de «La Stampa»: «Fu­rono i funerali più commoventi ed edificanti cui abbia assistito; non i più solenni ma i più vivi, i più caldi, i più umani, i più belli. In nessun’al­tra occasione ho tanto desiderato di essere non un povero disadorno cronista, ma uno scrittore».

Sull’idea di raccogliere informazioni e testimonianze per una biografia, mons. Gamba scrive a Cojazzi: «Stanotte pen­savo al nostro Giorgio e dicevo tra me: bisogna scriverne la vita; sarà un modello e un protettore per i giovani. Ma chi potrà farlo? Il mio pensiero corse a lei, che fu suo precettore. Al mattino leggo su “Il Corriere” il suo bellissimo articolo che invita a inviarle notizie! La incoraggio a compiere il più presto questo lavoro, graditissimo e uti­lissimo, giacché Pier Giorgio fu modello a tutti, avendo attra­versato tutti i pericoli del mondo facendone un eroe cristiano».

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