Festa della donna, l’esempio di suor Giuseppina Demuro

Operò a Torino – L’8 marzo 1976 la scuola materna municipale in via Michele Lessona 70 è intitolata a suor Giuseppina Demuro (Lanusei 1903 – Torino 1965) «perché il suo nome rimanga fra quelli a cui Torino deve ammirazione e riconoscenza»

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suor Giuseppina Demuro

L’8 marzo 1976 la scuola materna municipale in via Michele Lessona 70 a Torino è intitolata a suor Giuseppina Demuro «perché il suo nome rimanga fra quelli a cui Torino deve ammirazione e riconoscenza e la sua personalità continui a essere di esempio a quanti credono sinceramente nella giustizia e nell’amore fra gli uomini». Chi è suor Giuseppina? Perché è giusto ricordarla nella «Giornata della donna»? È «l’angelo delle Nuove».

Rosa Demuro nasce il 2 novembre 1903 a Lanusei (Nuoro) da Francesco e di Matilde Fioris. Con il nome di Giuseppina, entra tra le Figlie della carità di San Vincenzo de’ Paoli e il 6 Gennaio 1926, con altre suore, inizia il servizio alle carceri Nuove di Torino. Solo la morte il 18 ottobre 1965 pone fine a decenni di servizio nella sezione femminile. Dal 1942 è superiora della piccola comunità di suore impegnate tra le detenute. Alle Nuove sono imprigionati patrioti, partigiani, ebrei, perseguitati politici, ammassati in celle anguste, affamati e privi di tutto: spesso li caricano sui vagoni piombati e li spediscono nei campi di sterminio in Germania o i nazifascisti li fucilano per rappresaglia. Le suore riescono a penetrare nel terribile braccio tedesco, vietato a tutti, e a portare aiuto: una parola buona, un piatto di minestra, un maglione pure sbrindellato. Un testimone dell’epoca, mons. Giuseppe Garneri, parroco del Duomo e poi vescovo di Susa, rivive: «La sua abilità fu tale che riuscì a organizzare, nel reparto femminile, un’infermeria per curare i feriti. Nel Natale 1943, eludendo la sorveglianza delle SS, alcuni soldati russi, in partenza per un campo di concentramento, espressero la loro riconoscenza con una danza».

Nel Natale 1944 innalzano un gigantesco albero carico di doni e un altarino per la Messa. A mezzanotte le celle si aprono e oltre 500 detenuti si affacciano sui ballatoi per assistere alla Messa. Ricorda mons. Garneri: «Fu un avvenimento eccezionale se si tiene presente che le celle erano costantemente chiuse e gli sportelli venivano aperti una volta al giorno per distribuire il modestissimo rancio e una volta al mese quando il cardinale Maurilio Fossati celebrava la Messa e distribuiva la Comunione». Suor Demuro tiene i contatti con i comandi partigiani, con il Comitato di liberazione nazionale, con il cardinale Fossati e il suo segretario don Vincenzo Barale. Promuove scambi di prigionieri; telefona in piena notte al federale Paolo Zerbino per impedire che all’alba venga fucilato un padre di famiglia, colpevole di tenere un vecchio fucile 191, ricordo della Grande Guerra 1915-18. La religiosa, nella relazione inviata nel febbraio 1946 a Fossati, narra: «Dopo l’8 settembre 1943 la nostra resistenza all’oppressore, per proteggere i fratelli oppressi, inizia con l’occupazione tedesca del primo braccio: vi gettavano le loro prede, di cui erano gelosissimi. Ciò era per noi un cupo e assillante mistero». La disciplina è durissima: le recluse sono stipate in celle anguste e fatiscenti, non godono dell’ora d’aria, non possono seguire le funzioni religiose né ricevere pacchi e denaro da casa. Senza curarsi delle minacce delle SS, la suora si mette d’accordo con la San Vincenzo che fa entrare in carcere indumenti e generi alimentari.

Prodiga le proprie cure a tutte le detenute ma in particolare alle israelite. Svelano i testimoni: «Era più sollecita perché le suscitavano maggiore pena, prive di ogni cosa, cacciate senza distinzione di età, spesso con i bambini al collo». Ebrei e partigiani incappano nei rastrellamenti dei nazifascisti che li accusano di antifascismo. Le ragazze portano sui volti pallidi e negli sguardi smarriti i segni delle violenze e delle sofferenze. Benefattori e amici rispondono all’appello della religiosa e dal tetro portone di corso Vittorio entrano cassette di uova, ceste di frutta, dolci, fiaschi di vino, zucchero, calzature, vestiti. Mons. Garneri, anch’egli protagonista di quegli eventi concitati, nelle memorie «Tra rischi e pericoli» (1981) scrive: «Nell’aprile 1945 i nazisti battevano in ritirata e i partigiani stavano per impadronirsi della città. Per evitare un inutile spargimento di sangue, suor Giuseppina si recò in Prefettura e, con il suo prestigio e la sua insistenza, ottenne un foglio collettivo di scarcerazione di tutti i detenuti politici. Mentre spari di mitragliatrici si incrociavano per le strade, seduta sul cofano di un’automobile che procedeva a passo d’uomo, agitava una bandiera della Croce Rossa fino alla Nuove: 500 detenuti politici uscirono incolumi dal carcere». Quelli provenienti da fuori Torino sono smistati negli istituti religiosi: le Piccole Sorelle dei poveri di corso Francia 180 ne accolgono una sessantina « felici di riposare in un letto dopo molti mesi passati in prigione tra privazioni e maltrattamenti».

Nell’aiuto agli ebrei rifulgono l’arcivescovo Fossati, il segretario Barale, i Sacramentini, il salesiano don Vittorio Cavasin direttore del collegio di Cavaglià (Vercelli). Rispondono alla parola d’ordine, lanciata da Pio XII. Mons. Barale rischia la vita. I nazifascisti non osando arrestare il cardinale, il 3 agosto 1944 fermano il segretario e lo portano prima in via Asti, poi nel braccio tedesco delle Nuove, infine nel domicilio coatto all’Istituto Sacra Famiglia di Cesano Boscone (Milano). Il cardinale arcivescovo di Milano, Ildefonso Alfredo Schuster, lo salva dal «lager». Nel 1955 a Milano l’Unione delle Comunità israelitiche italiane gli conferisce la medaglia d’oro: «Accolse e protesse tutti gli ebrei che durante le persecuzioni si rivolsero a lui per aiuti e consigli. Attraverso inenarrabili pericoli trasse a salvamento, nascondendo o facilitando l’espatrio, singoli e fami­glie. Nemmeno in carcere interruppe la sua attività instancabile, illuminata dalla fede». Il 19 novembre 2015 a Ri­voli è consegnata la medaglia «Giusto fra le nazioni» alla memoria di don Barale e di don Cavasin, grazie alle testimonianze di tre ebrei, salva­ti quand’erano ragazzi. Due fratelli italiani e un bambino tedesco testimo­niano della correttezza dei salvatori che non tentano di convertirli né di battezzarli.

Dopo la guerra suor Giuseppina si dedica alla ristrutturazione del reparto femminile, reso meno tetro e più umano; allestisce l’asilo-nido per i figli delle carcerate, che chiama «la perla della sezione femminile». Incontra il sindaco comunista Domenico Coggiola, che aveva conosciuto e assistito in carcere come detenuto politico. Nel 1962 le assegnano la medaglia d’oro al merito della «redenzione sociale» e l’Unione Donne italiane (comunista) l’8 marzo le assegna la mimosa. Alla morte nel 1965, il sindaco democristiano Giuseppe Grosso la commemora con una seduta pubblica in Consiglio comunale. Merita ricordare che dal gennaio 1931 l’assistenza spirituale alle Nuove era affidata ai Missionari della Consolata che accompagnarono alla forca 72 condannati. Ma per il loro zelo nel sostenere i partigiani sono odiati dai nazifascisti. Allora Fossati li sostituisce con i Francescani del convento Sant’Antonio di Padova. «Il saio di San Francesco sta bene dietro alle sbarre» dice a padre Ruggero Cipolla che il 15 novembre 1944 entra in carcere come cappellano provvisorio: ci resterà oltre mezzo secolo.

 

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