Fiat, la crisi del 1980 e la marcia dei quarantamila

Ottobre 1980 – Alla Fiat l’autunno di quarant’anni fa è «torrido»: 35 giorni di sciopero, la battaglia più dura, più lunga e più combattuta della storia sindacale. Il 6 settembre la Fiat annuncia 24 mila esuberi. Partono le trattative con i sindacati ma il 10 il negoziato si rompe e la società annuncia 14.469 licenziamenti. Inizia un durissimo sciopero a oltranza

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«Noi fabbrichiamo automobili, le fabbrichiamo in Italia e rappresentiamo Torino» parola di Gianni Agnelli. «Torino e il Piemonte sono stati troppo a lungo grandi corpi con un cervello troppo piccolo». Anni in cui gli Agnelli fanno gli imprenditori, generosamente aiutati dallo Stato, investono veri capitali in vere fabbriche, assumendone i rischi e producendo beni, occupazione e sviluppo. Poi diventano finanzieri globali, abili nel maneggiare affari e compravendite, sempre più indifferenti alle sorti degli italiani, del Piemonte e di Torino, che entrano in una spirale di decadenza. Nel dopoguerra la Fiat diventa un impero dove non tramonta mai il sole; conquista il monopolio dell’auto in Italia con una serie di acquisizioni di marchi e costruzione di fabbriche. Per decenni stravolge Torino e munge dalle casse dello Stato. Secondo l’Associazione artigiani e piccole imprese (Cgia) di Mestre sono 7,6 miliardi di euro gli aiuti dello Stato nel 1977-2009, a fronte di 6,2 miliardi di investimenti. Gli aiuti più consistenti negli anni Ottanta quando i governi occidentali sostengono massicciamente le case automobilistiche nazionali.

Le avvisaglie dello smantellamento di Mirafiori risalgono agli anni Ottanta: le prime tavole urbanistiche del nuovo piano regolatore – approvato poi nel 1995 – mostrano l’area color salmone (residenze e servizi) e non più violetto (destinazione industriale). Il sindacato chiede spiegazioni e gli rispondono che è un banale errore, uno scambio di pennarelli. Alla luce delle successive «cure da cavallo», non fu un abbaglio ma una precisa scelta. Negli anni Settanta si sentono sinistri scricchiolii: la crisi colpisce l’industria, l’economia, la società. Inizia la globalizzazione.

Alla Fiat quarant’anni fa l’autunno 1980 è «torrido»: 35 giorni di sciopero, la battaglia più dura, più lunga e più combattuta della storia sindacale. L’8 maggio la Fiat propone la cassa integrazione di 78 mila operai per 8 giorni. Per il torinese Walter Mandelli, vicepresidente della Confindustria e capo degli industriali metalmeccanici, «bisogna passare ai licenziamenti perché è un problema strutturale». A fine giugno il banchiere Enrico Cuccia, «il padrone dei padroni», ricorda a Gianni Agnelli che la Fiat «ha 8.500 miliardi di lire di debiti con le banche che mostrano grande preoccupazione». Il 31 luglio assume pieni poteri l’amministratore delegato Cesare Romiti, lo stratega che mostra i muscoli.

Il 6 settembre la Fiat annuncia 24 mila esuberi. Partono le trattative con i sindacati ma il 10 il negoziato si rompe e la società annuncia 14.469 licenziamenti. Inizia un durissimo sciopero a oltranza, con il pieno sostegno del Partito comunista: il 26 settembre Enrico Berlinguer, segretario Pci, arringa gli operai alla porta 5 di Mirafiori: «Se le trattative non raggiungessero uno sbocco, bisognerà pensare a forme di lotta ancora più dure, non esclusa l’occupazione, e non potrà mancare la solidarietà dei comunisti».

Il governo di Francesco Cossiga si dimette. La Fiat sospende i licenziamenti ma il 29 annuncia la cassa integrazione a zero ore per 23 mila. I lavoratori decidono di proseguire la lotta. Il 10 ottobre sciopero generale: nonostante i blocchi a Mirafiori, 200 lavoratori eludono la vigilanza degli attivisti, entrano in fabbrica e producono 85 auto. Il 14, dopo 35 giorni di agita­zioni e aspre forme di lotta – picchetti, violenze, blocco delle merci – il colpo di scena: migliaia di quadri, i «colletti bianchi» in contrapposizione alle «tute blu», scendono in piazza e sfilano chiedendo la riapertura delle fabbriche e il ritorno al lavo­ro. Il fiume si ingrossa sempre più e che raggiunge la piena di 40 mila persone, ma poi tutti dicono che erano di meno: capi officina, capi reparto, impiegati, tecnici e operai. Contestano che i delegati sindacali contino più di loro. Innalzano striscioni e cartelli: «Libertà di sciopero ma anche libertà di lavorare. Non siamo picchiatori ma lavoratori. Novelli, Novelli fai aprire i cancelli. Vogliamo la trattativa non la morte della Fiat. Sono picchiatori e non pichettatori. Non siamo picchiatori ma lavoratori. Non vogliamo picchettanti ma lavorare tutti quanti».

Per il 14 ottobre a Roma il ministro del Lavoro Franco Foschi aveva convocato una riunione Fiat-sindacati. Le notizie da Torino creano apprensione e panico. La trattativa parte alle 23 e alle 6 del 15 ottobre l’accordo: i 14.469 licenziamenti sono sostituiti dalla cassa integrazione straordinaria di due anni per 23 mila e dal passaggio dei lavoratori in ec­cedenza ad altre aziende. E il Parlamento vota la fiducia al governo quadripartito Dc-Psi- Psdi-Pri guidato da Arnaldo Forlani.

La «marcia dei 40 mila», apoteosi dell’orgoglio Fiat, chiude la vertenza e segna la fine di un decennio infestato dalla violenza nelle fabbriche. Dal braccio di ferro escono con le ossa rotte: la sinistra in generale e il Pci di Enrico Berlignuer; Piero Fassino, responsabile della commissione fabbriche del Pci e futuro sindaco di Torino, ammetterà: «Noi comunisti sbagliammo e non capimmo la forza dei ceti medi e il mutamento strutturale». Va in frantumi la «triplice» Cgil (Luciano Lama)-Cisl (Pierre Carniti)-Uil (Giorgio Benvenuto) che dirà: «Puntavamo a un pareggio, con la marcia la Fiat vinse ai rigori». Una sonora sconfitta per Claudio Sabbatini, segretario dei metalmeccanici Cgil.

I vincitori sono: il caporeparto Luigi Arisio, organizzatore della «marcia». Carlo Callieri, da un anno direttore del personale Fiat: «I capi lasciavano le auto fuori dalla fabbrica ma i delegati avevano il permesso di entrare con le loro: feci ritirare quei permessi. Dissi ai miei: scendete in piazza, fate una catena di sant’Antonio. Non avevo dubbi che la manifestazione avrebbe avuto successo capovolgendo l’esito dello scontro e sentivo che la città era di nuovo con noi». E soprattutto Cesare Romiti: «Decisi di andare fino in fondo la notte che feci il giro di Mirafiori e vidi i delegati scherzare e ballare tra i fuochi. Quelli, mi dissi, non erano operai della Fiat». La conflittualità in fabbrica è il tema cruciale come spiega l’ing. Carlo Stroppiana, responsabile del montaggio motori a Mirafiori: «La tensione aveva raggiunto il massimo e i rapporti si erano deteriorati non solo tra gli operai ma anche tra i capi. Vivevamo un’atmosfera quasi da stadio e non c’era sicurezza. I facinorosi ebbero terreno fertile. Vidi buttare con la forza un caposquadra dentro un cassonetto. Io, con altri 6 capi, fui “licenziato” dai dimostranti e mi fu proibito con la forza di entrare in fabbrica».

Il prete-operaio Carlo Carlevaris racconta: «Di fronte alla minaccia dei licenziamenti, fin da subito si stabilirono in città dirigenti e attivisti di Lotta continua e Potere operaio, tra cui Adriano Sofri. Il loro progetto, messo a punto ben prima dei 35 giorni, era di cavalcare la protesta per abbattere il progetto della Fiat e scardinare il sindacato troppo accondiscendente».

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