Finalmente gli Stati Uniti riconoscono il genocidio armeno avvenuto oltre un secolo fa. Lo fanno dopo molti Paesi occidentali: (in ordine alfabetico) Argentina, Armenia, Belgio, Canada, Cile, Cipro, Francia, Grecia, Italia, Lituania, Libano, Paesi Bassi, Parlamento europeo, Slovacchia, Stato Città del Vaticano, Svezia, Uruguay, Venezuela. Il Congresso degli Stati Uniti nel marzo 2010 approva la risoluzione che ne chiede il riconoscimento; il 30 ottobre 2019 la Camera Usa lo riconosce quasi all’unanimità. Ora il presidente Biden decide il riconoscimento effettivo. La ragione del ritardo è geopolitica ma la verità storica è più forte. Gli Usa non hanno mai riconosciuto il genocidio per non dispiacere alla Turchia, che si ostina a negare tutto, «baluardo» dell’Occidente e della Nato, in faccia all’«orso sovietico».
«Metz Yeghern, il Grande male» colpisce un nobile popolo: re Tiridate III di Armenia, convertito e battezzato con la sua corte da San Gregorio illuminatore, nel 312 dichiara il Cristianesimo «religione di Stato», un anno prima che l’«editto di Milano», sottoscritto nel febbraio 313 da Costantino il Grande per l’Occidente e da Valerio Liciniano Licinio per l’Oriente, conceda libertà di culto anche ai cristiani.
Sotto l’Impero Ottomano un milione e mezzo di armeni rifiutano di rinnegare la fede e sono sterminati. I non musulmani sono protetti dall’Islam in quanto «gente del libro» e monoteisti: tra islamici e non musulmani, pur in posizione subalterna, la coabitazione regge fino a quando il nazionalismo non contagia anche l’Impero Ottomano. A Costantinopoli presso la Sublime Porta le minoranze religiose sono protette dalle potenze europee: la Francia tutela i cattolici, la Russia gli ortodossi, la Gran Bretagna i protestanti e gli anglicani, gli Stati Uniti gli ebrei.
Lo stermino comincia nel 1894-96 con Abdul-Hamid II: i sultani sono sovrani politici e capi religiosi. Nel 1908 i Giovani turchi lo depongono e lo sostituiscono con il fratello Mehmet V; propugnano un nazionalismo che soffoca i non musulmani; sterminano 30 mila armeni. Alla vigilia della Grande Guerra le potenze europee ritirano il personale diplomatico e così le minoranze religiose restano indifese. I Giovani turchi ne approfittano e nella notte del 23-24 aprile 1915 passano di casa in casa, arrestano e uccidono 50 intellettuali, accusati di essere la «quinta colonna» dell’impero russo. Un pretesto per scatenare la pulizia etnica che dura fino al 1922. Conversioni forzate, maltrattamenti, deportazioni e «marce della morte» provocano un milione e mezzo di morti per fame, malattie, sfinimento. Sovrintendono ufficiali tedeschi in collegamento con l’esercito turco, «prova generale» della deportazione nazifascista degli ebrei, con il ghigno beffardo di Hitler: «Chi ricorda più lo sterminio degli armeni?». Periscono vescovi, sacerdoti, religiosi, donne, uomini, anziani, bambini e malati armeni, assiri, caldei, greci. L’ecatombe innesca la diaspora in Europa, Stati Uniti, Russia e Ucraina, Sudamerica.
Il Papa Benedetto XV scrive subito al sultano Mehmet V (10 settembre 1915) per far cessare l’eccidio «che avviene contro il volere di Vostra Maestà. Il popolo armeno, per la religione che professa, è spinto a mantenere fedele sudditanza a Vostra Maestà». Nella risposta il sultano sostiene l’impossibilità di distinguere fra innocenti e sediziosi e di fatto giustifica la pulizia etnica. Come conforto morale per questo popolo perseguitato e annientato, con l’enciclica «Principi apostolorum» (5 ottobre 1920) il Papa proclama «dottore della Chiesa universale» Sant’Efrem Siro vissuto in esilio a Edessa in Turchia.
Anche Torino in soccorso dei profughi armeni. Pio XI, Pontefice dal 6 febbraio 1922, mette la residenza estiva di Castel Gandolfo a disposizione di 300 fanciulle armene che sono scappate. Anche a Torino trovano accoglienza i profughi armeni, vittime del terribile genocidio. «Motorino» della solidarietà è don Adolfo Barberis, segretario del cardinale arcivescovo Agostino Richelmy. Abbraccerebbe tutti i poveri in spirito e intanto aiuta i poveri in canna. Gli eventi incalzano. Arrivano le prime ondate di profughi della Grande Guerra: dal Veneto, dal Belgio, dalla Francia. Il segretario è in prima linea, come scrive in una lettera: «Da una settimana si ripetono un poco le opere di carità di Lourdes, ma in beneficio dei poveri profughi, nell’Istituto Sant’Anna. Si vanno ad accogliere alla stazione (Porta Nuova) donne e fanciulli a tutte le ore della notte: si dà loro da mangiare e da bere, poi un poco di materasso per riposare, una benedizione, spesso Messa, confessione e Comunione, poi si mandano a spasso nel nome del Signore, e si accolgono altri».
La Turchia si ostina a negare e non vuol sentir parlare di «genocidio». Gli storici hanno trovato una massa di documenti. Il prefetto di Aleppo – allora nell’Impero Ottomano, oggi in Siria – scrive testualmente: «Il governo ha deciso di eliminare completamente tutti gli armeni senza riguardo per donne, bambini, malati. Per quanto possano essere tragici i mezzi di sterminio, bisogna mettere fine alla loro esistenza». Quello armeno è il primo – e dimenticato – genocidio del XX secolo: i nazifascisti (1939-45) sterminano 6 milioni di ebrei e mezzo milione di zingari perseguitati, seviziati, sterilizzati e gasati perché «razza inferiore» nel «Porajmos, Grande divoramento»; stalinismo comunista in Urss (1924-53); Khmer rossi in Cambogia (1975-79); pulizia etnica in Bosnia (1992-96), in Ruanda e Burundi (1994). L’11 dicembre 1946 l’assemblea delle Nazioni Unite (risoluzione 96) riconosce «il crimine di genocidio, negazione del diritto alla vita di gruppi umani, razziali, religiosi, politici o altri, che siano stati distrutti in tutto o in parte». Il termine è coniato nel 1944 da Raphael Lemkin, giurista polacco.
In visita in Armenia, Giovanni Paolo II (27 aprile 2001) definisce lo sterminio «un’aberrazione disumana, un tempo di indicibile terrore e sofferenza». Suscita le ire del presidente dittatore Recep Tayyip Erdoğan anche Papa Francesco che celebra il centenario del martirio e proclama dottore della Chiesa San Gregorio di Narek, monaco, filosofo, teologo, mistico e poeta (12 aprile 2015): «Fare memoria dello sterminio di un milione e mezzo di armeni sotto un regime totalitario è doveroso, per il popolo armeno, per la Chiesa, per la famiglia umana perché il monito che viene da questa tragedia ci liberi dal ricadere in simili orrori. Quel massacro fu un vero martirio. Sentiamo il grido di tanti fratelli e sorelle che, per la fede in Cristo o l’appartenenza etnica, sono uccisi, decapitati, crocifissi, bruciati vivi, costretti ad abbandonare la loro terra. Basta conflitti e violenze fomentate strumentalizzando le diversità etniche e religiose. Si riprenda il cammino di riconciliazione tra il popolo armeno e quello turco». In risposta il ministero degli Esteri convoca mons. Antonio Lucibello, nunzio apostolico ad Ankara, e gli esprime «il disappunto del governo. Le dichiarazioni del Papa non sono fondate su dati storici e sono inaccettabili». Nominare in pubblico il genocidio è punito con tre anni di carcere in quanto «gesto anti-patriottico e vilipendio dell’identità turca»: per questo molti sono perseguitati, tra cui lo scrittore Orhan Pamuk, Premio Nobel per la letteratura 2006, e il giornalista armeno Hrant Dink, ucciso da un ultranazionalista. Le cifre sono discordanti; secondo l’Armenia le vittime sono almeno 1 milione e mezzo; secondo la Turchia 300 mila; secondo l’Associazione internazionale degli studiosi di genocidi sono «oltre un milione».