«La zuppa vogliamo, non il viatico!» gridano i detenuti tra insulti e bestemmie. Nella domenica in Albis, 17 aprile 1814, la marchesa Giulia Falletti di Barolo percorre via San Domenico a Torino vicino alle carceri del Senato. Si inginocchia al passaggio di un prete che porta la Comunione e ode quelle grida. Bussa, entra, visita i reparti. Un quadro sconvolgente: l’essere umano umiliato dai carcerieri, abbrutito dall’ozio, disprezzato dalla società. «Rincasai con il cuore a pezzi per il dolore». Nelle «Memorie sulle carceri» annota: «Il loro stato di degradazione mi provocò dolore e vergogna. Quelle povere donne e io eravamo della stessa specie, figlie dello stesso Padre, anch’esse erano una pianta dei Cieli, avevano avuto un’età dell’innocenza ed erano chiamate alla stessa eredità celeste».
C’è l’«Opera Pia Barolo», fondata due secoli fa da Giulia Falletti di Barolo, nel «quadrilatero della santità» con quattro vertici: santuario della Consolata, Piccola Casa della Divina Provvidenza di Giuseppe Benedetto Cottolengo, Valdocco-Maria Ausiliatrice di Giovanni Bosco, Artigianelli di Leonardo Murialdo. Juliette Françoise Victurnie Colbert nasce a Maulévrier in Vandea il 27 giugno 1785. Di nobile lignaggio è pronipote di Jean-Baptiste Colbert, ministro delle Finanze di Luigi XIV, «re Sole». Entra a corte come damigella dell’imperatrice e incontra il marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo, paggio imperiale, erede di una delle più antiche, nobili e ricche famiglie subalpine dopo i Savoia. S’innamorano e si sposano a Parigi il 18 agosto 1806. Si trasferiscono a Torino e dedicano la vita alle opere di beneficenza per le fasce meno abbienti; fondano scuole professionali per fanciulle povere, ragazze madri, bambini disabili e in difficoltà; si occupano degli appestati e dei colerosi; operano al miglioramento delle condizioni di vita della popolazione carceraria.
Carlo Tancredi promuove scuole gratuite; collabora alla creazione della prima Cassa di risparmio in Piemonte; finanza la costruzione del cimitero generale; fonda il primo asilo infantile sul modello delle «salles d’asile» di Parigi; insieme fondano le Suore di Sant’Anna. Nel palazzo di via delle Orfane – il più bello e ricco che imita i palazzi parigini – tra affreschi e i ritratti accolgono disoccupati, ex detenuti, vecchi, malati, donne di malaffare. Sindaco di Torino, si impegna moltissimo per i poveri. Muore a Chiari nel Bresciano il 4 settembre 1838. Giulia, bella, elegante, colta, conversazione vivace e arguta, è protagonista di un filantropismo consacrato alla redenzione degli ultimi. Per i detenuti nelle carceri (Senato, Torri, Correzionale) prova un misto di pietà e di paura. Nei reparti femminili si intrattiene con le detenute e si fa raccontare la vita: donne di modesta condizione scivolate nella colpa per bisogno o per violenze o per disperazione, ladre, truffatrici, prostitute, ragazze madri. La beneficenza prevede che «la dama ricca, buona e benefica entri nel luogo più infimo, protetta dal proprio benessere e buon nome, e parli di rassegnazione e ricompense divine a donne sventuratissime».
Giulia non si limita alla consolazione, punta al recupero e al reinserimento. Nel 1821 nasce la «Casa delle forzate» dove vivono secondo regole e disciplina: ordine e preghiera, catechismo e penitenza, lettura e lavoro (filatura della canapa e del lino e confezione di calze e vestiti) in camere spaziose e un cortiletto per prendere aria e fare esercizio fisico. Nel 1823, in un casolare di Borgo Dora, in aperta campagna, acquistato dal governo e ristrutturato a sue spese, fonda l’Opera Pia del Rifugio che ospita 70 donne uscite dal carcere e con regole rigide: solo la superiora decide quando possono andare a servizio delle famiglie. Nel 1831 sorgono il «Rifugino» per le fanciulle orfane sotto i 15 anni, «vittime dei più sventurati disordini», e l’Istituto Sant’Anna «per istruire ed educare cristianamente le ragazze e farne buone cristiane e buone madri di famiglia». Non ha figli e compensa così il desiderio di maternità. Vedova, si impegna con dedizione ancora più radicale.
È una delle più belle donne di Torino: occhi chiari, naso dritto, bocca carnosa, boccoli che cadono sulle guance. Frequenta la chiesa San Francesco, dove c’è il Convitto ecclesiastico con don Giuseppe Cafasso maestro e don Giovanni Bosco allievo. Coinvolge le amiche, le «signore di carità». Elabora un progetto di riforma delle carceri con alla base idee precise: distinguere i detenuti in tre categorie – inquisiti, condannati, reclusi di passaggio -; consentire il lavoro; farli seguire da un cappellano. Nel 1832 il patriota Silvio Pellico trova rifugio in casa Barolo e diventa bibliotecario. Ma il bene non è mai tranquillo: i giornali scrivono di una relazione tra Pellico e lei; accusano la marchesa di ogni nefandezza, anche di rapire le ragazze per chiuderle in convento; riceve cumuli di lettere anonime; la notte sconosciuti gettano sassi contro le finestre.
Considerazioni analoghe aveva svolto mezzo secolo prima Cesare Beccarìa nel suo celebre «Dei delitti e delle pene» (1764). L’illuminista, giurista, filosofo e letterato milanese è contro la tortura e la pena di morte. Giulia è convinta che la detenzione deve riabilitare la persona e a chi sbaglia bisogna insegnare a fare il bene. Passa giorni in carcere; ascolta le detenute; condivide la loro vita, la loro pena e il loro cibo: rivoltante. Qualcuna, fingendo una crisi, la colpisce con spintoni, schiaffi e insulti. Lei incassa: «Bisogna cominciare con il commuoverle, intenerirle, farsi voler bene, dimostrando loro che le si ama. È in questo modo che ho ottenuto la loro fiducia. Piangevo, soffrivo con loro». Quando Giulia muore, nel 1864, a 78 anni dopo aver costruito la chiesa che porta il suo nome, per tre giorni una grande folla le rende omaggio e i giornali – che l’hanno trattata da adultera e corruttrice della gioventù – la definiscono «madre dei poveri». Destina l’intero patrimonio all’Opera Pia Barolo, che opera da due secoli: oggi è distretto di 19 mila metri quadrati di edifici, 11 mila di cortili e ospita 17 enti e realtà caritative-assistenziali.