I Marchesi di Barolo e l’intuizione di un sistema di welfare per Torino

1823 – Duecento anni fa a Torino Giulia e Tancredi Falletti di Barolo fondano l’Opera Pia Barolo: si occupano delle fasce meno abbienti, creano scuole professionali per fanciulle povere, ragazze madri, bambini disabili e in difficoltà; si occupano degli appestati e dei colerosi; operano al miglioramento delle condizioni di vita della popolazione carceraria

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I marchesi Giulia e Tancredi Falletti di Barolo

«La zuppa vogliamo, non il viatico!» gridano i detenuti tra insulti e bestemmie. Nella domenica in Albis, 17 aprile 1814, la marchesa Giulia Falletti di Barolo percorre via San Domenico a Torino vicino alle carceri del Senato. Si inginocchia al passaggio di un prete che porta la Comunione e ode quelle grida. Bussa, en­tra, visita i reparti. Un quadro sconvolgente: l’essere umano umiliato dai carcerieri, ab­brutito dall’ozio, disprezzato dalla società. «Rincasai con il cuore a pezzi per il dolore». Nelle «Memorie sulle carceri» an­nota: «Il loro stato di degradazione mi provocò do­lore e vergogna. Quelle povere donne e io eravamo della stessa specie, figlie dello stesso Pa­dre, anch’esse erano una pianta dei Cieli, aveva­no avuto un’età dell’inno­cenza ed erano chiama­te alla stessa eredità cele­ste».

C’è l’«Opera Pia Barolo», fondata due secoli fa da Giulia Falletti di Barolo, nel «quadrilatero della santità» con quattro vertici: santuario della Consolata, Piccola Casa della Divina Provvidenza di Giuseppe Benedetto Cottolengo, Valdocco-Maria Ausiliatrice di Giovanni Bosco, Artigianelli di Leonardo Murialdo. Juliette Françoise Victurnie Colbert nasce a Maulévrier in Vandea il 27 giugno 1785. Di nobile lignaggio è pronipote di Jean-Baptiste Colbert, ministro delle Finanze di Luigi XIV, «re Sole». Entra a corte come damigella dell’imperatrice e incontra il marche­se Carlo Tancredi Falletti di Barolo, paggio imperiale, erede di una delle più antiche, nobili e ricche famiglie subalpine dopo i Savoia. S’innamorano e si sposano a Parigi il 18 agosto 1806. Si trasferiscono a Torino e dedicano la vita alle opere di beneficenza per le fasce meno abbienti; fondano scuole professionali per fanciulle povere, ragazze madri, bambini disabili e in difficoltà; si occupano degli appestati e dei colerosi; operano al miglioramento delle condizioni di vita della popolazione carceraria.

Carlo Tancredi promuo­ve scuole gratuite; collabora alla creazione della prima Cassa di risparmio in Piemonte; finanza la costruzione del cimitero generale; fonda il primo asilo infantile sul modello delle «salles d’asile» di Parigi; insieme fondano le Suore di Sant’Anna. Nel palazzo di via delle Or­fane – il più bello e ricco che imita i palazzi parigini – tra affreschi e i ritrat­ti accolgono disoccupati, ex detenuti, vec­chi, malati, donne di malaffare. Sindaco di Torino, si impegna moltissimo per i poveri. Muore a Chiari nel Bresciano il 4 settembre 1838. Giulia, bella, elegante, colta, conver­sazione vivace e arguta, è protagonista di un filantropismo consacrato alla redenzione degli ultimi. Per i detenuti nelle carceri (Senato, Torri, Correzionale) prova un misto di pietà e di paura. Nei reparti femminili si intrat­tiene con le detenute e si fa raccontare la vita: donne di modesta condi­zione scivolate nella colpa per bisogno o per violenze o per disperazione, ladre, truffatrici, prostitute, ragazze madri. La beneficenza prevede che «la dama ricca, buona e benefica entri nel luogo più infimo, protetta dal proprio benessere e buon nome, e parli di rassegnazione e ricompense divine a donne sventuratissime».

Giulia non si li­mita alla consolazione, punta al recupero e al reinserimento. Nel 1821 nasce la «Casa delle forza­te» dove vivono secondo regole e disciplina: ordine e preghiera, catechismo e penitenza, lettura e lavoro (filatura della canapa e del lino e confezione di calze e vestiti) in camere spaziose e un cortiletto per prendere aria e fare  esercizio fisico. Nel 1823, in un casolare di Borgo Dora, in aperta campagna, acquistato dal governo e ristrutturato a sue spese, fonda l’Opera Pia del Rifugio che ospita 70 donne usci­te dal carcere e con regole rigide: solo la supe­riora decide quando possono andare a servizio delle fa­miglie. Nel 1831 sorgono il «Rifugino» per le fanciulle orfane sotto i 15 anni, «vittime dei più sventurati disordini», e l’Istituto Sant’Anna «per istruire ed educare cristianamente le ragazze e farne buone cristiane e buone madri di famiglia». Non ha figli e compensa così il desiderio di maternità. Vedova, si impegna con dedizione ancora più radicale.

È una delle più belle donne di Torino: occhi chiari, naso dritto, bocca carnosa, boccoli che cadono sulle guance. Frequenta la chiesa San Francesco, dove c’è il Convitto ecclesiastico con don Giuseppe Cafasso maestro e don Giovanni Bosco allievo. Coinvolge le amiche, le «signore di carità». Elabora un progetto di riforma delle carceri con alla base idee precise: distinguere i detenuti in tre categorie – inquisiti, condannati, reclusi di passaggio -; consentire il lavoro; farli seguire da un cappellano. Nel 1832 il patriota Silvio Pellico trova rifugio in casa Barolo e diventa bibliotecario. Ma il bene non è mai tranquillo: i giornali scri­vono di una relazione tra Pellico e lei; accusano la marchesa di ogni nefandezza, anche di rapire le ragazze per chiuderle in convento; riceve cumuli di lettere anonime; la notte sconosciuti get­tano sassi contro le finestre.

Considerazioni analoghe aveva svolto mezzo secolo prima Cesare Beccarìa nel suo celebre «Dei delitti e delle pene» (1764). L’illuminista, giurista, filosofo e letterato milanese è contro la tortura e la pena di morte. Giulia è convinta che la detenzione deve riabilitare la persona e a chi sbaglia bisogna insegnare a fare il bene. Passa giorni in carcere; ascolta le detenute; condivide la loro vita, la loro pena e il loro cibo: rivoltante. Qualcuna, fingendo una crisi, la colpisce con spintoni, schiaffi e insulti. Lei incassa: «Bisogna cominciare con il commuoverle, intenerirle, farsi voler bene, dimostrando loro che le si ama. È in questo modo che ho ottenuto la loro fiducia. Piangevo, soffrivo con loro». Quando Giulia muore, nel 1864, a 78 anni dopo aver costruito la chiesa che porta il suo nome, per tre gior­ni una grande folla le rende omaggio e i giornali – che l’hanno trattata da adultera e corruttrice della gioventù – la definisco­no «madre dei poveri». Destina l’intero patrimonio all’Opera Pia  Barolo, che opera da due secoli: oggi è distretto di 19 mila metri quadrati di edifici, 11 mila di cortili e ospita 17 enti e realtà caritative-assistenziali.

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