
È stato presentato venerdì 22 aprile a Torino, al Polo del Novecento, il libro di Gigi Padovani «La Liberazione di Torino. Aprile 1945: le sette giornate dell’insurrezione» (Edizioni del Capricorno, 2022, pp. 236 + 24 di illustrazioni, euro 15), racconto, documentato e puntuale, dei giorni che hanno preceduto e seguito il 25 aprile 1945; dagli scioperi del 18 aprile alla preparazione delle operazioni insurrezionali; le forze in campo, quelle nazifasciste e quelle della Resistenza, le mappe della città e della regione, le immagini d’epoca. Ma, soprattutto con le testimonianze degli operai e dei partigiani che hanno partecipato alla librazione della città. Abbiamo chiesto all’autore-scrittore, già giornalista a «Nuova società», «L’Unità», «La Gazzetta del Popolo» e poi a «La Stampa», un contributo a partire dal suo libro sui giorni della liberazione a Torino. Prossima presentazione, sabato 30 aprile presso la libreria Belgravia: con Padovani intervengono lo storico Nicola Adduci, Nino Boeti presidente provinciale dell’Anpi Torino e la scrittrice Margherita Oggero. (m.lom.)
Non c’è nulla di più orribile della guerra. Chi l’ha vissuta ne è ben consapevole, e da due mesi lo sa il popolo ucraino bombardato e violato dalle truppe di invasione russe inviate da Putin. A volte la storia obbliga l’aggredito a impugnare le armi per difendere «il proprio diritto alla pace», come ha affermato, con il consueto equilibrio, il nostro Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Perciò appaiono incomprensibili le polemiche che hanno contraddistinto questo 25 aprile appena trascorso: deve rimanere una «data fondativa della nostra democrazia» (citando sempre il Capo dello Stato).
Qualche intemperanza verbale nei cortei o nelle fiaccolate, insieme con le critiche all’Anpi sui social network (dovute certamente a una comunicazione poco accorta da parte della presidenza nazionale), non hanno però inficiato il valore di questa giornata, che dovrebbe originare sempre più una «memoria attiva» della Resistenza e non soltanto celebrazioni retoriche.
«Adesso incomincia la solita lagna sui partigiani…». Mi è capitato di leggere quest’improvvido post sulla mia timeline di Facebook. Il libro che ho scritto dovrebbe servire anche a chi la pensa così per conoscere che cosa è successo davvero nei seicento giorni seguiti alla «morte della Patria» dell’8 settembre.
La minoranza di italiani – secondo alcune stime gli antifascisti impegnati a vario titolo contro la Repubblica di Salò furono circa 4 milioni, su una popolazione di 44 milioni – che nel 1943 impugnò le armi contro gli occupanti tedeschi (guerra patriottica) e i fascisti della Rsi (guerra civile) consentì al nostro Paese di uscire dal conflitto mondiale con un minimo di dignità. Lo ricorda nella sua bella prefazione Paolo Borgna, il presidente di Istoreto (Istituto piemontese per la storia della resistenza e della società contemporanea «Giorgio Agosti»). Non era consentita alcuna equidistanza, allora. E del resto lo stesso Pontefice san Giovanni Paolo II ebbe modo di dire che la pace deve accompagnarsi sempre a giustizia e libertà, oltre a verità e amore.
Le donne e gli uomini che persero la vita in quei venti mesi drammatici volevano riconquistare la libertà vilipesa dalla dittatura di Mussolini. La Provincia di Torino (oggi Città Metropolitana) – e in precedenza il capoluogo – nel 2005 fu insignita dal Presidente Ciampi della Medaglia d’oro della Resistenza per il tributo di sangue pagato: 1818 partigiani uccisi e 664 civili; 109 eccidi di partigiani e 50 di civili; 563 deportati in Germania.
Ho pensato a questi «eroi del quotidiano» riscrivendo il libro che pubblicai in una prima edizione nel 1979: allora ero un giovane giornalista, lavoravo all’ufficio stampa della giunta regionale del Piemonte, dopo un’esperienza come vicedirettore del quindicinale «Nuova società» fondato da Diego Novelli e poi diretto da Saverio Vertone. Collaboravo al settimanale «Giorni» firmato da Davide Lajolo, lo scrittore partigiano di Vinchio (At): l’avevo conosciuto tramite la figlia Laurana, che guidava un giornale locale ad Alba, mia città d’origine. Passeggiando con il suo cane Argo tra le vigne del Monferrato, Ulisse (il suo nome di battaglia) mi propose di scrivere una ricostruzione approfondita della Liberazione del capoluogo piemontese, nell’ambito di una collana editoriale agli esordi.
Con l’entusiasmo della gioventù accettai. Decisi di scriverlo utilizzando un metodo giornalistico, che oggi definirei da «storico da marciapiede». Raccolsi più testimonianze possibili dei protagonisti di quella epica battaglia: erano ancora tutti vivi e vigili, vogliosi di raccontarsi. Furono mesi di interviste nella sede torinese dell’Anpi di corso Regina Margherita.
Da quel materiale informe, insieme con la ricostruzione dell’evolversi della insurrezione tramite i documenti dell’epoca catalogati dall’Istituto Storico della Resistenza (allora sede in via Fabro), riuscii a pubblicare un libro che venne definito «anti-retorico», scritto con «attenzione e scrupolo», un «contributo severo alla storia del nostro secondo Risorgimento» (dalle recensioni di allora).
Oggi, dopo 43 anni, grazie alla disponibilità di edizioni del Capricorno il libro è ripubblicato, in un’edizione ampiamente riscritta e aggiornata con nuovi elementi storiografici emersi dagli studi più recenti – Adduci, De Luna, Maida, Oliva, Pavone, Peli ecc., arricchita da schede, elenco di sigle, i Qrcode delle lapidi partigiane «parlanti» in città (tramite la sezione Anpi Nicola Grosa), 24 pagine di fotografie (molte inedite, come quelle della sezione Anpi Martorelli).
L’impianto generale del libro non è mutato: il capitolo iniziale è dedicato allo sciopero di «prova pre-insurrezionale» del 18 aprile; il secondo ai venti mesi di guerra civile in città e l’ultimo alla cronaca minuziosa dei sette giorni decisivi per la libertà, da martedì 24 a lunedì 30 aprile. Il «cuore» del libro rimangono le dieci testimonianze, raccontate in soggettivo degli «eroi minori» della Resistenza: un cameriere che spiava i fascisti al tavolo del ristorante e riferiva ai partigiani; un’impiegata del Comune che forniva documenti falsi agli antifascisti; un postino che intercettava la corrispondenza dei comandi repubblichini.
A giudicare dall’accoglienza positiva nelle prime presentazioni – avvenute al Polo del 900, con il sindaco di Torino Stefano Lo Russo e con l’emozionante presenza in platea del partigiano e scrittore Bruno Segre, l’avvocato di 103 anni che rimane un lucido testimone vivente di quella stagione, e nella libreria Il Ponte sulla Dora, in Borgo Rossini – quelle storie mantengono tutta la loro freschezza. Ci sono anche molte donne, fra di loro, e ne emerge un quadro abbastanza inaspettato di quella lotta di popolo che unì professionisti e operai, bottegai e politici – spesso armati soltanto del loro coraggio – contro circa tredicimila militari tedeschi e fascisti, muniti di carri corazzati e di un ottimo equipaggiamento. A partire dalla mattina del 27 aprile – con un giorno di ritardo che costò nuovi lutti – scesero in città circa undicimila partigiani provenienti dalle valli del Torinese (Lanzo, Chisone, Pellice, Susa) e dalle colline del Monferrato.
Torino allora era una città sostanzialmente operaia: circa 200 mila lavoratori gravitavano attorno alle fabbriche Fiat, impegnate nello sforzo bellico. Entrò in azione, in quei sette giorni, il terzo elemento fondativo della Resistenza italiana, insieme alla lotta patriottica e alla guerra civile: la lotta di classe. Che però venne abilmente indirizzata «contro la fame e il terrore», con il preciso scopo di dare il colpo finale al regime fascista.
Il «capolavoro» di Torino, come ha ricordato Paolo Borgna, fu quello di consegnare all’esercito anglo-americano in arrivo dall’Emilia-Romagna una metropoli con tutti i servizi funzionanti, le autorità insediate, l’ordine ristabilito. Scrisse Franco Antonicelli, l’intellettuale liberale presidente del Comitato di Liberazione piemontese: «Torino si mostrò città così civilmente preparata, così organizzata, da creare una vera sorpresa negli Alleati». La Nuova Italia nasceva da quelle drammatiche giornate, i cui ideali sarebbero poi confluiti nella nostra Costituzione.