Google, il motore di ricerca più usato nel mondo, ha vent’anni. Per spegnere le candeline sulla torta potete scegliere il giorno e volendo anche l’anno. Legalmente l’azienda nasce il 4 settembre 1998, ma il suo dominio era già stato registrato il 15 settembre 1997. Per convenzione, dal 2005 il compleanno si festeggia il 27 settembre in memoria di quando, nel 1998, fu registrato un primo record di pagine indicizzate. L’atroce neologismo «guglare» non era ancora all’orizzonte. In ogni caso, come vuole la mitologia della Silicon Valley, la culla fu un garage.
Vent’anni nell’era di Internet, dove tutto è (era) volatile ed effimero, sono una eternità. Chi ricorda più sistemi per scambiare mail come Eudora? Motori di ricerca e browser nascevano e morivano in pochi mesi. E il portale di interrogazione Yahoo! non vi sembra preistoria, benché sia ancora ben vivo e vegeto? Quanti sistemi operativi si sono succeduti dopo il Dos 3.0? Che ne è stato dei floppy pieghevoli, di quelli rigidi, dei cd-rom? Archeologia ancora senza museo, ma molti di noi il museo l’hanno in casa.
Interrogabile in 128 lingue, multinazionale con la potenza finanziaria di uno Stato, costellazione di aziende e servizi diversi, Google sembra eternamente giovane. Forse anche perché il suo logo, di solito la cosa più sacra e intoccabile per un’azienda di successo, viene aggiornato continuamente. In vent’anni se ne sono già succeduti sette, un lifting perenne ma sempre minimalista: caratteri dal disegno classico, il penultimo era un Bodoni modernizzato, dal 1° settembre 2015 la multinazionale di Mountain View ha rinunciato alle sue ‘grazie’ e ha scelto un «bastone» dalla rigida ed essenziale geometria. Ma la geometria è quotidianamente violata dai doodle che agganciano link di attualità, attenti anche alle situazioni dei vari Paesi-utenti. Per dominare davvero, il globale deve mascherarsi da locale. Le sei lettere di Google evocano un arcobaleno anomalo (blu, rosso, giallo, azzurro, verde e ancora rosso), ma sempre i colori incongruenti del logo si stagliano su una francescana grande pagina bianca. Rassicurante e inquietante nello stesso tempo.
Google imita la pronuncia di googol. Fu un ragazzino di 9 anni, Milton Sirotta, a inventare nel 1938 questa parola per indicare il numero 10 elevato alla centesima potenza. Milton stava passeggiando con lo zio Edward Kasner, professore di matematica alla Columbia University, e giocava a immaginare numeri molto grandi che potessero essere scritti con poche cifre molto piccole. Dieci elevato a 100 si scrive con un paio di uno e tre zeri. Sembra una cosetta. Ma tutte le stelle di tutte le galassie sono solo10 alla 22 e tutti gli atomi che costituiscono l’universo sono appena 10 alla 80. Dentro googol sta l’universo intero e avanza un sacco di spazio per molti altri universi.
Di qui si capisce l’ambizione di Larry Page e Sergey Brin quando nel 1995 a Stanford, California, poco più che ventenni, battezzarono il loro motore di ricerca. Con un nome così è naturale che Google si prefiggesse di schedare tutte le informazioni del web, che sono centinaia e centinaia di miliardi di pagine, ma fossero anche centomila miliardi sarebbero sempre un’inezia rispetto all’universo.
Google stesso è un universo, o almeno una costellazione di altri marchi ultrapotenti: Gmail, You Tube, Google Maps, il sistema operativo Android. Per non parlare dei social e di una infinità di app. Un impero che si estende in più di 50 Paesi, con 88 mila dipendenti, un fatturato di 111 miliardi di dollari e un utile di 12 (dati 2017).
Rispetto ai motori di ricerca precedenti, Google risultò subito più intelligente. Perché intelligenza è saper scegliere. E Google, in prima approssimazione, seleziona i siti sulla base dei loro link e degli accessi: più ne hanno, più dovrebbero essere siti che contengono ciò che cerchi. Un criterio che ricorda l’impact factor: un articolo scientifico è tanto più importante quanto più numerose sono le citazioni che ottiene da parte di altri ricercatori. Ma l’algoritmo di Google è in continua (segreta) evoluzione. E te ne accorgi. Dopo un po’ che lo usi, Google sembra conoscerti così bene da mettere al primo posto l’informazione che ti serve, e per dimostrarti quanto è sicuro di sé ha pure il tasto «mi sento fortunato»: un clic solo, ed eccoti servito. Già, perché mentre ti fornisce le informazioni richieste, te ne carpisce altre.
Poche cose ci identificano come le interrogazioni che gli sottoponiamo: è facile dedurne i nostri interessi, il lavoro che facciamo, il nostro livello culturale, quali curiosità ci guidano, che opinioni abbiamo, quali prodotti ci attraggono. Di qui i ben mirati consigli per gli acquisti che accompagnano ammiccando le nostre ricerche. E un dubbio: queste informazioni vengono usate solo per questo già discutibile fine o possono essere rivendute a chiunque abbia interesse ad acquistarle? D’altra parte, se l’acquirente fosse il ministero della Difesa degli Stati Uniti e l’obiettivo perseguito la lotta al terrorismo, come si potrebbe dire di no? La legge italiana del 31 dicembre 1996 n.675 sulla tutela dei dati personali (o privacy), con tutte le scartoffie che ci costringe a firmare, appare provinciale e patetica, non solo scomoda e inefficace.
Nell’aprile 2007 Google brevettò un sistema per disegnare il profilo psicologico di chi si diverte con videogiochi online. Con i progressi a grandi balzi dell’intelligenza artificiale è imminente il giorno in cui questo motore di ricerca conoscerà i nostri gusti meglio di noi stessi. Così potremo domandare a Google anche quali studi scegliere, che film andare a vedere, quale investimento fare, se divorziare o cambiare fidanzata. Non è fantascienza. Già ora quando scarichi da YouTube, ad esempio, un filmato con Raffaella Carrà, il sito te ne propone subito degli altri, e poi passa a suggerirti filmati con Lorella Cuccarini o Heather Parisi. Hanno capito che sei un nostalgico della tv degli anni ‘70. Nello stesso modo, Amazon, dopo averti fornito qualche libro che hai richiesto, ti suggerisce altre letture mirate sui tuoi gusti. Siti come Second Life e World of Warcraft addirittura conoscono le tue fantasie più segrete, si calano negli abissi del tuo inconscio.
Quanto la profilazione degli utenti sia pervasiva e invasiva lo dice bene questo dato curioso: le banche americane concedono più facilmente mutui e prestiti a chi acquista feltrini da mettere sotto i mobili e le gambe delle sedie: persone così sono probabilmente diligenti, affidabili, puntuali. Ma chi dice alle banche che Tizio compra feltrini e Caio no? Semplice: per trovare i feltrini di solito si fa una ricerca su Google e poi li si acquista tramite Amazon…
Premesso che Google, Amazon, You Tube e affini danno per lo più servizi utili, c’è qualche modo per difendersi dagli abusi? Ce n’è uno solo: sapere come funzionano questi software, renderceli più trasparenti, procurarci una meta-conoscenza che ci aiuti a interpretare le conoscenze attinte al web con algoritmi tanto astuti quanto misteriosi.
Se acquisti qualcosa in quell’immenso mercato virtuale che è e-bay, il controllo di qualità lo fanno tutti gli acquirenti, che possono denunciare truffe o inganni: e-bay offre la piazza, vendite e acquisti avvengono sotto un regime in mano agli utenti. Se consulti Wikipedia, la conoscenza circola tra pari: i wikipediani sono una moltitudine, spesso l’utente di conoscenze ne è anche produttore, qualcuno sbaglia ma altri correggono: pare che un errore in Wikipedia abbia una vita media di 5 minuti, studi seri dicono che l’affidabilità di Wiki è paragonabile a quella della leggendaria Enciclopedia britannica.
Il meccanismo di Google è del tutto diverso. La conoscenza non circola tra pari ma cala dall’alto degli algoritmi che la schedano, la memorizzano e la setacciano per te. Wikipedia è democratica, quasi assembleare. Google è tecnocratico. Anche se il suo sviluppo ha fatto tesoro dell’open source e se il criterio con cui stabilisce la graduatoria dei siti ha qualcosa della rudimentale democrazia dell’Auditel (si suppone che chi ha più link sia più affidabile, così come si suppone che il programma tv con più ascolto sia migliore, cosa tutta da dimostrare…).
In Internet non c’è conoscenza se non si possiede una meta-conoscenza: quella dei sistemi con cui funzionano i motori di ricerca. E’ la nuova forma di quella vecchia cosa che si chiamava «senso critico». Rimane il fatto positivo che, diversamente dal denaro, il sapere si moltiplica condividendolo, ed è proprio ciò che avviene grazie a Internet. Se condivido il teorema di Pitagora con un miliardo di persone, alla fine sono tutti più ricchi. Se spartisco i soldi di una banca tra un miliardo di persone alla fine sono tutti poveri come prima.
Osservazioni finali. In Internet quasi tutto sembra gratuito, a cominciare da Google, ma non è così. Paghiamo fornendo i nostri dati, che per alcuni diventano una miniera di soldi. La rete nasce e cresce come ‘bene comune’, paragonabile all’aria che respiriamo, ma poi qualcuno ha fatto miliardi usando questo bene comune e oggi c’è chi, usando Facebook, twitter e dintorni decide le sorti del mondo. E non dimentichiamo che in ogni caso Google scandaglia solo la superficie del web: meno del 10 per cento, anche se ci presenta milioni di risultati trovati in una frazione di secondo. Sotto la schiuma oceanica del web si nasconde il deep web, e sotto ancora il dark web. Per navigare in quelle profondità tenebrose occorrono speciali motori di ricerca che sono in realtà meta-motori, cioè motori di motori, e di solito sono a pagamento.