C’è troppo scialo di morte. Morti cercate, morti come sbocco senza speranza ai problemi quotidiani… Tre omicidi-suicidi a Torino nell’ultimo mese (di coppie anziane e malate); giovani che per le ragioni più svariate pongono fine al loro sogno; luoghi di divertimento che si trasformano in teatri di morte. Il rispetto per il mistero di ogni vita chiede di rinunciare a valutazioni riduttive o superficiali. Fin dalle sue origini, tuttavia, la sociologia ha osservato che la pulsione di morte (suicidi, omicidi, violenze) cresce nelle svolte epocali, quando predominano l’incertezza e l’anomia (l’individualismo). È il nostro momento.
Oggi abbiamo molti più strumenti per curare la malattia e per comprendere il disagio mentale, ma possediamo meno la capacità di affrontare la fatica del vivere. Siamo diventati più incerti e impacciati di fronte all’insuccesso, al dolore affettivo e al lutto.
Di fronte alla morte (e a ciò che la ricorda e la anticipa) la condizione umana vive il suo enigma più inestricabile. Solo considerandola, tuttavia, cogliamo il valore della vita: è bello vivere, nonostante la morte. La considerazione positiva della vita comporta, però, di imparare a confrontarci coraggiosamente e serenamente con il limite. Sono numerosi i tentativi per sfuggire all’angoscia dello scacco. Si può renderlo insignificante, fino a trasformare la morte in spettacolo. Si può sfidarla, vivendola come un gioco. Si può prevenire l’angoscia della fine con il divertimento estremo o con la gratificazione istantanea del consumo, con la sicurezza cercata nella ricchezza o nella superficialità dell’effimero, con la momentanea sensazione di potere, data dalla fama e dalla visibilità. La sconfitta e la morte non affrontate generano però il circolo vizioso dell’angoscia. Avviene così che una persona, nella malattia o nel lutto, si chiuda in se stessa, non osi parlarne. Ritiene che gli altri mai potrebbero capire, e si vergogna.
Dolore, morte e lutto sono i nuovi tabu di oggi. Si abbassa la voce, quando il discorso finisce lì. La spiritualità passata educava alla buona morte e la liturgia chiedeva a Dio la liberazione dalla morte «subitanea e improvvisa», che non lascia il tempo di umanizzarla. Oggi dolore e morte non sono più sentiti come realtà naturali ma come maledizioni. Bella morte è ritenuta quella che arriva senza consapevolezza, quella che toglie in fretta il fastidio. L’allusione alla malattia deve passare inosservata. La scena della morte non deve finire sotto gli occhi dei bambini; non devono saperne. La vita ‘privata’ porta, infatti, alla morte privata. Oltre che solitaria, la morte oggi è anche secolarizzata. È solo morte, senza simbologie e senza trascendenza. È la cura consigliata da S. Freud (1917): l’unica cosa che si può fare è distaccare la memoria, sciogliere i legami, «lasciar partire» il defunto e riprendere ad andare avanti. Ma dove c’è amore, non può esserci oblio. Si rimane inconsolabili: mai si troverebbe un sostituto. Non è possibile «lasciar partire», si può solo cercare di «portare dentro».
L’epoca del tecno-nichilismo (M. Magatti) è una civiltà decadente perché non pone domande alla morte; non insegna più a morire. Ogni sforzo compiuto per nascondere o dimenticare la realtà della morte (cioè del dolore) si traduce, però, in stanchezza interiore, in fuga dalla realtà, in perdita della voglia di vivere.
Nati per morire?
L’estensione dell’impulso di morte ci trova impreparati. Come affrontare il dolore? Come umanizzare la morte? Proveniamo da una cultura che, insistentemente, nella filosofia, nella letteratura e nell’arte, ha ridotto l’umano al rapporto con la morte. Siamo «nati per morire» (S. Freud). L’uomo: «l’essere-per-la-morte» (M. Heidegger). L’umano è definito dal morire. Buona parte dell’arte contemporanea insiste sul dissolvimento, irride le «belle forme» (lasciate al marketing). Quest’assoluto della morte è in realtà la rimozione dell’evento della nascita. Il mito del «farsi da sé» e la potenza tecnologica trovano nella nascita uno scacco insopportabile. La nascita è la condizione di ogni umana possibilità, eppure su questa noi non abbiamo alcun potere. Ci troviamo a esistere; altri hanno scelto per noi.
Per la mitologia dell’Io, questo è un dato inquietante, un fatto inaccettabile. Eppure la vita umana non è ‘gettata lì’; è stata voluta, donata. Si viene al mondo da un atto d’amore. Senza un amore continuo, quotidiano, il cucciolo dell’uomo non sopravvive, si lascia morire. L’umano che si è sviluppato in noi, fino al momento presente, va attribuito più a ciò che abbiamo gratuitamente ricevuto, che a quanto abbiamo effettivamente fatto. Far emergere l’affezione del voler bene è l’unica scelta capace di convertire la sufficienza dell’Io e di mettere in discussione un’idea astratta dell’umano che alimenta angoscia e pulsione di morte. L’atto generativo è un atto assoluto (un effetto di cui non siamo causa), evento gratuito che non è nelle nostre mani e ci espone totalmente agli altri, con una doppia perdita di potere: sulla nostra origine e sulla nostra sussistenza (senza gli altri siamo nulla). È posta in scacco l’arroganza dell’Io.
La generazione: sorgente inesauribile di senso
Nell’annuncio biblico «generazione» è la prima parola della fede. Prima non c’è nulla. Dio è Padre perché genera, il Cristo è Figlio perché generato («non creato»), lo Spirito Santo «dà la vita». Possiamo umanizzare la morte solo se innamorati della vita. La prima pagina della Bibbia è, infatti, un canto sublime alla vita. Siamo nati dalla vita, destinati alla vita. La fede ha un dono d’inestimabile valore da offrire al mondo. Esiste già una pastorale del lutto nelle nostre comunità. In alcune parrocchie si offre anche un «ministero della consolazione», che si fa carico dello smarrimento prodotto dalla morte. C’è bisogno però anche di un «ministero della vita», un’umile ma decisa risposta al dominio di morte, nella pastorale giovanile, nella preparazione al matrimonio, nella catechesi battesimale. Quando la catechesi 0-6 anni sarà diventata quella più importante e indimenticabile, si sarà aperto alle famiglie il tesoro della tradizione credente, ora perduto per la fine del costume cristiano. La generazione, come la «nuzialità», hanno certo ancora bisogno di approfondimento e di ricerca teologica. La pratica pastorale, grembo generativo della Chiesa, tuttavia, arriva là, dove la teologia non sa. L’Amoris Laetitia ha aperto una strada.
I cristiani tuttavia non sono soli. Nella società secolarizza il mistero della morte non è andato perduto. Le tracce della trascendenza continuano a essere evidenti, anche quando sono negate. Persi i legami con la tradizione, si soffre la mancanza di codici comuni per dire il dramma del dolore e della morte. La crisi della fede è evidente, eppure ci si attende ancora molto dai riti religiosi. Si esprime gratitudine quando sono celebrati bene, si lascia trapelare la delusione quando sono bistrattati. Qualunque sia la visione, religiosa o atea, della vita, il modo di parlare di Dio da parte dei genitori, per esempio, è conseguente al modo di rispondere all’enigma della morte. Ma è sul mistero della nascita (e alla sua catechesi) che si scommette tutto il discorso religioso. Chi ama vuole la vita e si oppone in ogni modo alla morte. «Vivere rinascendo» (che è la grazia battesimale) è l’unica possibilità per trascorrer in pienezza le alterne stagioni della vita. Nella precarietà dell’esistenza diventano relativi tutti gli aggettivi (bello/brutto; sano/malato…) con cui cataloghiamo le differenze. Rimane solo la vita, valore primario, bene che si riceve, non si produce; si amministra e non si possiede. Così, nella cultura dei legami si può guardare la morte, fino a chiamarla con le parole di san Francesco: «Sorella nostra morte corporale».