I dannati dei Balcani ignorati dall’Europa

Emergenza migranti – La testimonianza del medico torinese Claudio Amè tra i profughi di Bihac nel nord ovest della Bosnia Erzegovina. Le storie raccolte da “Medici tra le tende”: tentano il “game”, cioè la fuga oltre il confine, ma vengono respinti dalla polizia croata

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«Alì ci ha detto che avrebbe tentato il game questo sabato… Chissà se ce la farà o sarà fermato, picchiato, e rimandato a Bihac, in Bosnia Erzegovina, dove lo abbiamo conosciuto. Chissà se per lui il freddo, la violenza, la paura continua, si trasformeranno in un ricordo o continueranno ad essere condizione quotidiana, condivisa con migliaia di persone che attraverso la rotta balcanica cercano un futuro migliore in Europa».

A parlarci di Alì, di Mohamed, di Josh (tutti nomi di fantasia) è Claudio Amé, medico torinese, membro della associazione «Medici tra le tende» che opera nei campi profughi libanesi, appena rientrato da una settimana di «missione» in Bosnia. Con lui altri sei volontari provenienti da altre città d’Italia che agli inizi di febbraio hanno costituito un «gruppo informale» e, avvalendosi dell’appoggio del Jrs (Jesuit refugee service), il Servizio dei gesuiti per i rifugiati, per una settimana, dal 20 al 28 febbraio, hanno visitato, curato, avvicinato, rifocillato i migranti che cercano, attraverso la rotta balcanica, di superare il confine bosniaco per arrivare poi in Italia, Germania, Francia, dove sono attesi da amici, familiari o dove sperano di farsi raggiungere un giorno da fratelli, genitori…

«Abbiamo visto quello che stava succedendo, le immagini dei profughi al gelo», racconta, «e in maniera spontanea ci siamo sentiti e convinti del fatto che non potevamo non fare qualcosa, così abbiamo contattato i gesuiti che sono presenti lì e siamo partiti». A fine dicembre nel Comune di Bihac il campo profughi «per singol man» di Lipa era in condizioni inaccettabili per la dignità e la sopravvivenza degli ospiti al punto che l’Oim (organizzazione Onu per le migrazioni), che lo gestiva su mandato dell’Ue e fornendo supporto al ministero di Sicurezza bosniaco, aveva deciso come gesto di denuncia di abbandonarlo.

Senza più l’Oim il governo aveva chiuso Lipa e da un giorno all’altro 1.200 persone si erano trovate fuori senza un riparo per il freddo; un incendio doloso, nella fase di sgombero, aveva poi distrutto parte dell’accampamento, peggiorandone ulteriormente le condizioni. Quelle immagini di profughi abbandonati al freddo ha richiamato l’attenzione mediatica e scatenato proteste per le condizioni, ma dopo qualche settimana il campo ha riaperto e la situazione non è cambiata: «Chi resta all’interno di Lipa, come di altri campi dove ci sono anche donne e bambini», prosegue Amè, «non ha prospettive, non può tornare indietro e non riuscirà mai a superare il confine, chi è fuori trova riparo in vecchie fabbriche abbandonate, in quelli che vengono chiamati squot, in baracche dalle condizioni indescrivibili tra spazzatura, macerie, senza acqua e appena può tenta il game: la fuga oltre confine che il più delle volte non riesce. Ho incontrato un ragazzo che era al 16° tentativo… Ogni volta è stato fermato dalla polizia, picchiato e rimandato indietro, ma lui continuerà a provarci perché non ha altre alternative».

Qualcuno cambierà strategia: c’è chi prima prova in gruppo pur sapendo di essere così più individuabile, ma al tempo stesso di poter avvalersi dell’aiuto reciproco per orientarsi e difendersi, chi sceglie i fine settimana quando sembra esserci meno polizia, chi sta aspettando un clima più mite, chi prova col maltempo pensando che ci siano meno controlli. Nessuno desisterà facilmente, ancor meno chi afferma di essere in realtà già riuscito a varcare il confine ma di essere stato riportato indietro «illegalmente».

Accompagnati da padre Stanko Perica, croato, direttore generale del Jrs Europa Sud-Est, e da padre Mate Zaja, i medici italiani ogni giorno per una settimana hanno visitato una cinquantina di persone andando a cercarle nelle fabbriche, nei boschi, «perché nei campi non ci hanno permesso di entrare e siamo stati continuamente seguiti e sorvegliati dalla polizia: ci hanno lasciato fare ma ci hanno controllato, fotografato, in un clima che rivela quanto il governo odi e alimenti l’odio verso i migranti».

Odio e violenza palpabili, che testimoniano un altro «scandalo» che i volontari denunciano: «La sensazione, vedendo la situazione, è che tutti i finanziamenti che l’Europa eroga al governo bosniaco per i campi e per garantire una assistenza dignitosa ai profughi, vengano spesi invece in droni, termo scanner, visori a infrarossi… Tutto ciò che può servire non alla cura ma alla cattura di questi giovani disperati». Odio e violenza che risultano anche dai controlli medici effettuati: «Le persone che abbiamo visitato avevano le patologie che si verificano in chi cammina per ore – vesciche, dolori articolari – in chi patisce freddo ed è in condizioni igieniche pessime – tanti i casi di scabbia – ma i problemi maggiori riscontrati sono stati quelli legati alle percosse. L’ultimo giorno ho incontrato Z. che aveva il braccio gonfio, fermato con altri nel corso di un game costretto a terra, al freddo, al tentativo di alzarsi ha scatenato la furia di un poliziotto che gli ha rotto il gomito destro e il quinto metacarpo della mano destra. Poi abbiamo soccorso J. che aveva subito un grave trauma cranico e quando è stato portato all’ospedale pubblico al Pronto soccorso volevano chiamare la polizia e si è dovuta cercare un’altra soluzione, ma l’odio è tale che nemmeno pagando si riescono a ottenere gli esami: la vita di queste persone non conta nulla».

E ancora continua Amè: «Una mattina siamo arrivati in una fabbrica dove avremmo dovuto trovare un gruppo corposo di migranti e invece all’apparenza non c’era nessuno. Stavamo quasi per andare via quando a poco a poco sono usciti dai nascondigli e ci hanno raccontato che mentre dormivano era arrivata la polizia e aveva preso un gruppo, molti non avevano nemmeno fatto in tempo a prendersi le scarpe, trascinati via con violenza».

Parla il dottor Amè e dal suo racconto si coglie come sia una descrizione realistica quella di «catastrofe umanitaria» usata dai media per raccontare la situazione in Bosnia: «Perché ci sono le sofferenze fisiche ma anche quelle psicologiche. Ci sono per questi giovani, molti anche minorenni, i traumi del passato che hanno lasciato alle spalle mettendosi in fuga e il trauma di un presente nella paura costante. Anche quando venivano al centro dei Gesuiti, se ti fermavi a guardarli ti rendevi contro di quanto si sentano ovunque minacciati… E poi c’è quel futuro che per loro si spalancherebbe ormai dopo una distanza irrisoria di 200, 250 chilometri, in media 8 giorni di viaggio, e che continua a sfuggire e provoca negli animi una ferita sempre più profonda. Perché sono pochissimi quelli che non hanno una meta precisa o qualcuno che li attenda. C’è persino chi come S. che è finito lì nei boschi di Bihac dopo 9 anni di lavoro in un’azienda agricola italiana. Aveva deciso di tornare in Pakistan per salutare una ultima volta la mamma morente, era partito con un volo pensando di tornare allo stesso modo e invece ora è li, parla correttamente italiano, ha con sé qualche soldo, che gli consente qualche vantaggio, ma non la sicurezza di passare il confine, di sfuggire alle botte, di ritornare a quella vita normale, che in Italia aveva sperimentato».

Cure mediche, incoraggiamenti, ascolto sono una piccola goccia di umanità offerta in una situazione disperata, ma la testimonianza del gruppo rientrato in Italia vorrebbe anche tradursi sia in un invito alla  consapevolezza di cosa sta accadendo alle porte del nostro Paese e del rischio che a poco a poco le autorità governative escludano associazioni e volontari dall’assistenza dei migranti peggiorandone le condizioni, sia nella proposta che anche per la rotta balcanica si possano attuare corridoi umanitari: «Perché», conclude Amè, «non è accettabile che si muoia e si soffra così solo per oltrepassare un confine».

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