I Vescovi italiani, “per conquistare la cittadinanza serve il lavoro”

Cei – L’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro il 6 marzo ha presentato alla Camera una relazione sul Reddito di cittadinanza: “per conquistarsi la cittadinanza, ben prima del reddito e dei sussidi, serve il lavoro”

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«Un assegno statale mensile che ti faccia portare avanti la famiglia non risolve il problema. Il problema va risolto con il lavoro per tutti. L’obiettivo vero da raggiungere non è il reddito per tutti, ma il lavoro per tutti. Senza lavoro per tutti non c’è dignità per tutti».

Il 27 maggio 2017 Papa Francesco incontra gli operai dell’Ilva di Genova. Le sue parole sono state fortemente riproposte dai rappresentanti della Conferenza episcopale italiana – don Bruno Bignami, direttore dell’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro e Sergio Gatti, vicepresidente del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane sociali – il 6 marzo 2018 in un’audizione alla Camera davanti alle Commissioni riunite Lavoro e Affari sociali che esaminano il disegno di legge su reddito di cittadinanza e pensioni: «La vera leva sulla quale puntare per conquistarsi la cittadinanza è il lavoro, il lavoro degno». La Chiesa italiana da sempre dedica specialissima attenzione ai temi sociali, anzitutto al lavoro. La conclusione è una sola: per conquistarsi la cittadinanza, ben prima del reddito e dei sussidi, serve il lavoro. E il lavoro lo creano le imprese, non una norma e soprattutto non un sussidio. Il lavoro, e un «lavoro degno», è al centro di tutto. Solo così si possono evitare gli «enormi rischi di una cittadinanza parassitaria».

Messaggio forte e chiaro a Governo e Parlamento. Il sussidio rischia di attenuare la spinta degli italiani a cercare lavoro, o ad accettare offerte di lavoro che prevedano una retribuzione non troppo distante da quella del reddito. Si tratta di un vero e proprio effetto «spiazzamento» – citato da altre istituzioni, per esempio dagli industriali – che la Cei suggerisce caldamente di evitare, visto che andrebbe ad alimentare forme di cittadinanza non solo passiva ma soprattutto «parassitaria» nei confronti dello Stato. Un’idea di cittadinanza attiva, secondo la Cei, non si rassegna alla mera assistenza che può anzi diventare assistenzialismo e generare atteggiamenti deleteri e passivi, come la «poltronite».

La Cei ricorda che «ricerche internazionali confermano che misure di sostegno non hanno successo se l’ammontare è vicino al reddito che sarebbe percepito lavorando. La misura quindi scoraggia il reinserimento delle persone disoccupate nel mercato del lavoro». I controlli e le sanzioni devono essere «efficaci ed efficienti nell’azione di deterrenza verso chi vuole approfittare del denaro dei contribuenti per condotte ingannevoli e illecite e per chi rifiuterà, senza ragione, occasioni di lavoro». Tra i rischi c’è quello – già emerso a livello locale – di attenuare la spinta a cercare un lavoro o a convincere a rinunciare a offerte di lavoro che prevedano una retribuzione  non troppo distante dal sussidio. Don Bignami e il dott. Gatti chiedono che «la soglia unica di povertà tenga conto delle differenze regionali rilevate dall’Istat evitando di sovrastimare la povertà (e i beneficiari del sussidio) in alcune aree del Paese rispetto ad altre». Fuori dai denti le Regioni meridionali sono quelle nelle quali più richieste di sussidi, ma è anche vero che al Sud ci sono meno opportunità di lavoro.

Di fronte a una platea potenziale di beneficiari che oscilla dai 5 milioni di italiani (secondo il Governo) ai 2,4 milioni (secondo l’Inps), la Cei ribadisce che «un’idea di “cittadinanza attiva” non si rassegna alla mera assistenza che può anzi diventare assistenzialismo e generare atteggiamenti deleteri di cittadinanza passiva». Se è lodevole la lotta alla povertà e alla marginalità, alla disoccupazione e alla mancanza di lavoro degno, il ventaglio delle politiche attive del lavoro deve essere ampliato e quindi oggetto di «provvedimenti organici e sistematici», cosa che il governo gialloverde non si sogna di fare. Per favorire l’occupazione «uno strumento prezioso e indispensabile è la formazione di qualità e la buona formazione professionale è in grado di fornire le competenze più richieste dalle imprese». Quindi occorre «un investimento diretto e esplicito per la formazione. Sappiamo bene che il lavoro lo crea l’impresa, nella misura in cui risponde in modo adeguato al suo dovere di solidarietà. L’efficienza, rispettosa dei principi e delle regole di sostenibilità sociale e ambientale, oltre a costituire il motore di una azienda ben organizzata e a fruttare profitto, diventa un contributo concreto alla giustizia sociale».

Concepito da Di Maio e soci, il reddito rischia di sottostimare la povertà delle famiglie: «La ripresa di politiche di sostegno alla crescita (incentivi agli investimenti delle imprese, riforme sistema Paese, infrastrutture) sarà decisiva per il successo».

Un pacchetto di proposte concrete è quello emerso dalla 48ª Settimana sociale a Cagliari (26- 29 ottobre 2017) «Il lavoro che vogliamo. Libero, creativo, partecipativo e solidale». Sergio Gatti, vicepresidente del Comitato delle Settimane sociali, riassume le proposte. Non basta affermare che bisogna mettere il lavoro al centro. Per ridurre la disoccupazione, occorre: 1) intervenire con gli incentivi all’assunzione e rafforzare la filiera formativa; 2) canalizzare i risparmi anche verso le piccole imprese purché «rispondano ad alcune caratteristiche di coerenza ambientale e siano imprese sociali»; 3) cambiare radicalmente il sistema degli appalti: nonostante la riforma, tuttora il 60 per cento avviene con il massimo ribasso: la conseguenza è che le imprese vanno gambe all’aria o fanno economie assurde e pericolose sul personale e sui materiali; 4) inserire tra i parametri la responsabilità sociale, ambientale e fiscale; 5) mettere ordine alla «giungla delle aliquote Iva» che variano dal 4 al 10 e al 22 per cento: meglio rimodulare le aliquote per le imprese che rispettano i criteri ambientali e sociali, e questo sarebbe «a saldo zero» per la finanza pubblica. Infine battersi perché la Banca centrale europea-Bce sostenga consumi e inflazione ma soprattutto incrementi la produzione e rilanci l’occupazione.

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