Si intitola «Fca il mestiere dell’auto» l’«inchiesta operaia» che fotografa come si lavora oggi negli stabilimenti italiani di Fca e Cnh. Un tempo tute blu, occhi tute bianche, com’è cambiata la vita quotidiana degli operai, ad esempio, di Torino, Cassino e Melfi nel corso degli ultimi anni?
A queste domande i metalmeccanici della Cgil hanno voluto rispondere interpellando direttamente i lavoratori attraverso oltre 10 mila questionari distribuiti in 54 stabilimenti Fca, Cnh e Magneti Marelli prima della vendita ai giapponesi di Calsonic avvenuta nell’ottobre 2018.
Si tratta di una ricerca storica, perché la prima dopo decenni redatta dal sindacato. I risultati sono stati elaborati dalle Fondazioni Sabattini e Di Vittorio e diffusi lo scorso dicembre in un corposo rapporto che segna una frattura tra il «debito zero», definito qualche mese fa dall’azienda come un vero e proprio miracolo, e la meno entusiasmante realtà lavorativa dei 50170 operai in organico nel gruppo.
Dallo studio emerge innanzitutto «un deciso peggioramento delle condizioni di lavoro e la saturazione dei tempi di produzione». Negli stabilimenti ex Fiat si è infatti progressivamente passati ad applicare l‘Ergo-Uas, cioè un diverso metodo per la determinazione dei ritmi di produzione. L’Ergo-Uas è parte integrante del Wcm (World class manufacturing), la filosofia giapponese importata da Sergio Marchionne e basata sulla creazione di squadre per ridurre gli sprechi e migliorare ritmi e qualità della produzione.
Il cambiamento per i lavoratori non è stato certo indolore come sostengono circa i due terzi degli intervistati lo dice chiaro e tondo. Gli operai, in realtà, sono ora sottoposti a ritmi sempre più difficili da reggere: i tempi di lavoro sono valutati come «poco sostenibili» o «insostenibili» dalla metà degli interpellati, mentre il 60% giudica insufficienti le pause, in particolare coloro che dispongono di 3 soste da 10 minuti ciascuna (qui il giudizio negativo arriva al 73%). E all’aumento dei ritmi di lavoro non è corrisposto alcun aumento del salario. Solo il 23% del campione ritiene infatti soddisfacenti le retribuzioni. Mentre per tutti (97%) l’aumento del carico di lavoro in presenza di nuove produzioni dovrebbe corrispondere a un incremento dello stipendio. Ma sui metodi di produzione gli operai sostengono che per lo più non conoscono l’organizzazione dello stabilimento in cui lavorano. Il 20% ha infatti dichiarato di non sapere nulla del tanto pubblicizzato modello Wcm e tra quanti ne sanno qualcosa circa un terzo ne ha una conoscenza «scarsa».
Dalla ricerca emergono poi giudizi molto negativi sulla possibilità che hanno i lavoratori di contare di più» (69,2%), sulla collaborazione con i colleghi, che non è aumentata, e sul ruolo del team leader, che non favorirebbe la cooperazione (59%). Oltre a ciò, più della metà degli intervistati (54,8%) dichiara che il Wcm non supporta la risoluzione dei problemi, e un lavoratore su quattro (24,2%) afferma di non avere la possibilità di arrestare la produzione in presenza di criticità o anomalie.
Sul fronte della prevenzione degli infortuni, invece, l’atteggiamento dell’azienda agli occhi degli operai appare «ambivalente». Da un lato, c’è una maggiore attenzione alla sicurezza sul piano dei dispositivi di protezione individuale e dell’ergonomia. Dall’altro, però, si registra un aumento del mancato riconoscimento effettivo degli infortuni. A preoccupare è soprattutto la «tendenza a minimizzare situazioni problematiche e che non possono essere affrontate tralasciando interventi di prevenzione che non siano quelli sui dispositivi».
Negli ultimi tre anni, infatti, la probabilità di una denuncia degli infortuni è risultata pari a circa il 60%, molto meno dell’85% registrato negli anni precedenti. Secondo gli operai, insomma, si denunciano meno infortuni, e mancano investimenti sull’impiantistica, sugli utensili e sulla formazione. Il risultato è che circa un terzo «dichiara di ricorrere all’infermiera almeno una volta al mese, in particolare a causa di disturbi muscoloscheletrici».
Per sostenere i nuovi ritmi, infine, i lavoratori Fca ritengono che ci sarebbe bisogno di più manodopera qualificata, mentre per risparmiare si fa sempre più spesso appello al «lavoro povero». Dal rapporto emerge infatti con chiarezza che «il frequente ricorso agli ammortizzatori sociali» e l’elevato utilizzo della «mobilità tra stabilimenti in occasione della cassa integrazione» hanno per certi versi «occultato il tema del fabbisogno di manodopera di alcuni stabilimenti».
La dirigenza ha di solito risposto a questa necessità con la semplice «assunzione di personale interinale» o con il «cambiamento dei regimi di turnazione», determinato dal «ricorso allo straordinario comandato». Il peggioramento delle condizioni del lavoro, quindi, è dovuto anche alla carenza di personale qualificato. Questo fattore diventa determinante per il 25% degli addetti in Cnh e per il 20% di quelli in Fca.
Il rapporto si può scaricare su www.fondazionesabattini.it