Il calvario di Haiti, Paese martoriato

America – La testimonianza di Padre Miraglio, missionario camilliano, cappellano dell’ospedale di Stato Jérémie, nel sud est del Paese dei Caraibi. L’assassinio del presidente Moise è avvenuto in un momento di grande confusione per lo Stato: “siamo in mano a gruppi armati fino ai denti che controllano il territorio”

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Padre Miraglio ad Haiti

«Negli ultimi giorni la mia preghiera è stata spesso rivolta ad Haiti, dopo l’uccisione del Presidente e il ferimento della moglie. Mi unisco all’accorato appello dei Vescovi del Paese a ‘deporre le armi, scegliere la vita, scegliere di vivere insieme fraternamente nell’interesse di tutti e nell’interesse di Haiti’. Sono vicino al caro popolo haitiano; auspico che cessi la spirale della violenza e la nazione possa riprendere il cammino verso un futuro di pace e di concordia». Queste le parole di Papa Francesco al termine dell’Angelus dell’11 luglio, parole che «mi rendono molto contento», ci riferisce padre Massimo Miraglio, camilliano originario di Borgo San Dalmazzo, che abbiamo raggiunto a Jérémie, città nel Sud est di Haiti, «perché testimoniano come questa piccola nazione, che sta veramente molto soffrendo, sia nel cuore di Francesco».  Sofferenza per la situazione politica che l’omicidio del presidente Jovenel Moise, nella notte tra il 6 e il 7 luglio, e il grave ferimento della moglie Martine, ha portato all’attenzione internazionale, ma anche sofferenza per le problematiche sociali, economiche, sanitarie ormai croniche e inevitabilmente correlate.

Padre Miraglio, classe 1965, vive nello Stato di Haiti dal ’95, quando è stata avviata la missione della congregazione, e da 16 anni è a Jérémie, dove è cappellano dell’ospedale di Stato e porta avanti il progetto per la realizzazione di un ospedale camilliano. Quotidianamente «impegnato nell’emergenza»: sanitaria, scolastica, lavorativa per famiglie e bambini, e nella ricostruzione delle case distrutte dall’uragano Matthew del 2016 e già colpite dal sisma del 2010. In prima linea, come i confratelli che operano a Port au Prince, per i più poveri con il sostegno di tanti, in particolare dal Piemonte grazie all’associazione Madian Orizzonti Onlus.

Instabilità e confusione sono le parole che ricorrono maggiormente nella testimonianza di padre Miraglio su quanto accade ad Haiti: «Anzitutto», spiega, «l’assassinio di Moise avviene in un momento di grande confusione politica, avviene nei confronti di un Presidente che nell’ultimo anno è stato dichiarato illegale dall’opposizione». Nel 2016 la vittoria elettorale di Moise era infatti stata subito contestata, poi nel 2020 le elezioni legislative erano state rinviate e per questo il Presidente governava «per decreto» da oltre un anno. Moise è stato ucciso il giorno dopo aver nominato il neurochirurgo Ariel Henry come nuovo premier al posto di Claude Joseph, che ora è Presidente ad interim. A giugno era stato deciso anche il rinvio del referendum sulla riforma della Costituzione. «Rispetto al Presidente», prosegue Miraglio, «si è manifestata soprattutto nell’ultimo periodo un’opposizione radicale, che ha spesso bloccato il Paese e le sue attività. Un’opposizione, come sovente accade in queste situazioni, non armata di buoni propositi, ma semplicemente dalla volontà di sostituirsi al potere. Opposizione scadente che non sarebbe in grado di migliorare le sorti del Paese, anzi ha alimentato una lotta sterile che ha bloccato e trascinato il Paese in una povertà assoluta. Ricordo che Haiti è l’unico Stato dei Caraibi e dell’America latina a vivere una vera e propria emergenza alimentare».

Secondo un rapporto Unicef di maggio ad Haiti la malnutrizione acuta tra i bambini sotto i 5 anni è aumentata del 61% durante lo scorso anno. Complessivamente circa 4,4 milioni di persone su 11 milioni circa si troverebbero in condizioni di insicurezza alimentare. Una situazione di estrema miseria e di confusione, che ha alimentato la formazione e il rafforzamento del potere di numerose gang: «Sono gruppi armati fino ai denti che controllano il territorio e, soprattutto negli ultimi mesi, si sono resi responsabili di continui massacri e violenze. Assaltano autobus, camion, la strada che da Jérémie porta a Port au Prince è spesso bloccata. Oltre alle rapine hanno iniziato a organizzare rapimenti: un altro modo per fare soldi in un Paese con un’inflazione del 20% e dove il costo della vita per la gente è insostenibile».

All’indomani dell’assassinio del Presidente si sono levate diverse voci di condanna, ma la crisi economica e l’instabilità politica durano da tempo, come sono state in questi anni le relazioni internazionali? «In generale l’atteggiamento verso Haiti è sempre stato molto paternalistico, un atteggiamento che ha fatto sì che vi arrivassero molti soldi senza il minimo controllo. Non si è mai chiesto conto di come venissero utilizzati e a vantaggio di chi, con la conseguenza che chi era al potere ha potuto arricchirsi sempre più: persone sempre più corrotte e sempre più avide di riempirsi le tasche del denaro degli aiuti internazionali. D’altra parte nel Paese c’è una borghesia ignorante non preparata che non ama la gente, una borghesia che ha costruito la sua ricchezza sul lucro del commercio. Le grandi famiglie non si sono mai impegnate in settori strategici come agricoltura, industria e terziario in modo da alimentare produzioni locali, ma solo di importare merci dagli Usa, raddoppiarne il prezzo e venderle ottenendo profitti da investire altrove. Gran parte della miseria è dunque dovuta a questa classe borgese composta da poche famiglie ricchissime mai preoccupate di condividere e di garantire lavoro stabile, non precario e mal pagato. Le istituzioni non esistono, lo Stato è assente, non ci sono quelle strutture necessarie per uno sviluppo dignitoso: la scuola, gli ospedali, le strade sono a un livello catastrofico nonostante i soldi entrati. Un altro esempio di come il Paese sia sfruttato viene dalla Repubblica Domenicana, che ha scoperto Haiti come buon mercato di cose di qualità pessima. Haiti non applica nessun controllo di qualità sulla merce che entra. Esistono linee di prodotti vendibili solo ad Haiti, proprio perché non ci sono controlli: arrivano cibi con ingredienti chimici vietati in tutti i paesi del mondo che compromettono la salute della gente che li compra perché costano poco. Noi siamo nel ‘cortile di casa’ degli Usa, ma gli Americani non vedono Haiti come terra per acquistare materie prime o dove possono andare in ferie, no: gli investimenti sono legati al massimo al narcotraffico, perché Haiti è luogo di passaggio per la cocaina del Sud America; poi c’è la preoccupazione che gli Haitiani si stabiliscano negli Usa e, quindi, gli aiuti vengono dati in funzione di queste due cose e vanno nelle tasche di chi le gestisce».

E la pandemia come ha influito? «Il Paese non è stato colpito duramente dal Covid, i morti sono stati meno di 400, ma bisogna anche dire che Haiti non è in grado di raccogliere dati, anche i test sono sporadici. È uno dei pochi paesi al mondo in cui non è iniziata la vaccinazione: si parla di settembre, ma non si sa nemmeno come organizzare tutta la logistica, nella totale mancanza di ordine pubblico e poi di materie prime. Basti pensare che qui siamo da due settimane senza carburante. Sono crisi pilotate dal sistema politico e dalle grandi famiglie per mettere ancora più in difficoltà il Paese. La situazione, anche guardando ai prossimi mesi, rispetto all’assassinio non farà che degenerare: c’è un ministro dimissionario e il designato non ha avuto modo di presentarsi, il Senato non esiste. La morte di Moise ha generato subito una lotta di potere per le prossime elezioni e la stessa vicenda è avvenuta in situazione misteriosa: si parla per gli esecutori materiali di un gruppo di colombiani con due haitiani americani che sono entrati nella casa del Presidente senza essere fermati dal notevole sistema sicurezza, sono arrivati fino in camera da letto per uccidere e scappare senza che nessuno li fermasse… Dopo 24 ore quasi tutti sono stati arrestati: si è alla ricerca degli mandanti dell’assassinio, ma non so se si saprà mai la verità».

Quale futuro intravvede? «Posso dire che in queste condizioni anche per noi religiosi è difficile fare previsioni e progetti, non è facile lavorare con persone che vivono nella paura, nella precarietà. Si interviene in una situazione di costante emergenza. La speranza è che si possa aprire un dialogo e che possano rientrare in gioco le persone che si erano messe da parte per paura. La stabilità sarebbe la cosa decisiva per sperare in investimenti stranieri che favoriscano lo sviluppo locale. Noi Camilliani speriamo che la nostra presenza sia fonte di speranza, soprattutto per malati e poveri, lavorando con amore e testimoniando che questa è la strada per un futuro migliore per tutti».

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