Il 23 gennaio 1963 Josyf Slipyj, metropolita di Leopoli degli Ucraini e capo della Chiesa greco-cattolica, incarnazione dell’anima della Chiesa ucraina, sessant’anni fa è liberato dal «gulag» sovietico e il 10 febbraio 1963 a Roma si prostra ai piedi di Giovanni XXIII, in tempo per partecipare agli ultimi due anni del Concilio Vaticano II. Giulio Andreotti ne ha una vivida memoria: «Alla solennità del personaggio resa ancor più maestosa dalla lunga e fluente barba, dalla policroma tiara con un velo bianco e da un alto bastone pastorale con vistoso pomo d’argento, faceva contrasto un gesticolare per indicare il soffitto e gli angoli della stanza. Faticai a rendermi conto, la prima volta che Slipyi venne a trovarmi, che voleva accertarsi se vi fossero microfoni, e la medesima precauzione avrebbe manifestato a ogni incontro, frutto di un’abitudine a sentirsi spiato, che si portava dietro dalle molteplici persecuzioni». Nasce il 17 febbraio 1892 a Zazdrist in Ucraina e morirà a Roma il 7 settembre 1984.
Il 22 dicembre 1939 il Sinodo della Chiesa greco-cattolica, con l’approvazione di Pio XII, lo nomina arcivescovo coadiutore e riceve l’ordinazione episcopale in segreto per evitare la persecuzione. Il 30 giugno 1941 sostiene la dichiarazione d’indipendenza dell’Ucraina promossa dall’Organizzazione dei nazionalisti ucraini. Il 1º novembre 1944 diventa metropolita. Le autorità sovietiche convocano forzatamente un gruppo di 216 sacerdoti e il 9 marzo 1946 nella Cattedrale San Giorgio viene aperto il fasullo sinodo di Leopoli che revoca la dichiarazione con cui la Chiesa greco-cattolica entrava in comunione con il Papa e la Chiesa cattolica e dichiara l’annessione forzata alla Chiesa ortodossa russa. Il metropolita Slipyj rifiuta e subisce pesanti condanne.
Nel 1945 con la brutale invasione dell’Armata Rossa, vescovi, sacerdoti e fedeli cattolici sono arrestati e deportati; i luoghi di culto distrutti o regalati agli ortodossi; i pochi cattolici costretti alla clandestinità. Slipyj è arrestato la notte dell’11 aprile 1945 insieme ad altri vescovi dal Commissariato del popolo per gli Affari interni con l’accusa di collaborazionismo con il regime nazista, la solita accusa che abbonda sulle rive della Moscova. È il primo passo della liquidazione della Chiesa greco-cattolica da parte delle autorità sovietiche. Dopo il carcere a Leopoli, Kiev e Mosca, un tribunale lo condanna a 8 anni di lavori forzati in un «gulag» che non ha nulla da invidiare ai «lager» nazisti. Altri tre vescovi sono condannati per tradimento a lunghi periodi di carcere e lavori forzati altri, un processo-farsa con la solita accusa: collaborazionismo con i nazisti e attività anti-sovietica.
I campi di lavoro e i trasferimenti da un «gulag» all’altro non spezzano la sua resistenza. Nel 1954 lo condannano, senza processo, all’esilio in Siberia e nel 1959 ad altri 7 anni di «gulag» a Novosibirsk nell’Estremo Oriente. I suoi scritti circolano comunque. Nel 1957 Pio XII gli scrive per il 40º di sacerdozio ma la lettera viene confiscata. Nel 1963 Slipyj è liberato ed espulso, come gesto di buona volontà verso Papa Giovanni XXIII. Le cose, infatti, cominciano a cambiare. In un lungo rapporto sulla convocazione del Concilio Vaticano II (1962-65), un funzionario del Consiglio per gli Affari della Chiesa ortodossa russa, si sofferma sull’impegno per la pace di Giovanni XXIII: «È difficile immaginare che il Vaticano abbia cambiato la sua tradizionale politica di servizio dei più aggressivi circoli dell’imperialismo e sia diventato un sincero difensore della pace. La linea pacifista del Vaticano è un tentativo dell’Occidente di soffocare il movimento della pace. Gli interventi dei rappresentanti della Chiesa cattolica in difesa della pace sono indirizzati contro la politica aggressiva dell’Occidente».
Nikita Chruščёv, capo dell’Urss, elogia il Papa nell’intervista del 21 settembre 1961 a «Pravda» e «Jzvestija»: «Giovanni XXIII si attiene al buon senso, quando preavverte i governi della catastrofe generale e li richiama ad avere coscienza dell’enorme responsabilità, che portano di fronte alla storia. Tale appello è un buon segno. Siamo per la risoluzione pacifica e salutiamo ogni appello alle trattative negli interessi della pace». Il Concilio si inserisce in questo rapporto a distanza fra Chruščёv e Giovanni XXIII. Il Politbjuro del Partito comunista approva l’invio al Concilio di due «osservatori» della Chiesa russa. Una presenza che permette di stabilire un canale di comunicazione, utilizzato con successo per la liberazione di Slipyi. I due «osservatori» ortodossi, l’arciprete Vitalij Borovoj e l’archimandrita Viadamir, sono latori di un messaggio del Papa a Mosca. Il 23 gennaio 1963 il metropolita è liberato e il 10 febbraio è a Roma. Paolo VI il 23 dicembre 1963 lo nomina arcivescovo maggiore e il 22 febbraio 1965 cardinale. Leva durissime accuse contro il regime comunista al Concilio e ai Sinodi (1967 e 1971); denuncia la tragedia dei cristiani sotto il tallone di Mosca; chiede una definizione di libertà religiosa vincolante per lo Stato; partecipa come parte lesa al Tribunale Sacharov sulle violazioni dei diritti umani in Urss.
Il legame tra Concilio e impegno per la pace è messo in risalto dagli analisti sovietici. Un’informativa del presidente del Consiglio per gli Affari religiosi del gennaio 1963 individua una «tendenza progressista nell’assemblea conciliare, favorevole alla coesistenza pacifica». L’importanza del Concilio per il rafforzamento della pace è segnalata dal Dipartimento agitazione e propaganda del Comitato centrale. La crisi dei missili a Cuba, nell’ottobre 1962, e l’intervento di Giovanni XXIII sollecitano l’attenzione dei sovietici. Chruščёv in una lettera al cancelliere tedesco Konrad Adenauer si dichiara d’accordo con il Papa: «Io sono comunista e ateo e non posso condividere la visione filosofica del Papa ma sostengo e approvo il suo appello per la pace». Anche all’editore statunitense Norman Cousins il 13 dicembre 1962 Chruščёv esprime stima per il Papa: «Lui e io possiamo divergere su molte questioni, ma siamo uniti nel desiderio della pace. Il suo intervento sarà ricordato nella storia». Nel 1991 l’Ucraina indipendente, sganciata da Mosca, riabilita l’arcivescovo Slipyi. È in corso la causa di beatificazione. La sua storia ha ispirato lo scrittore australiano Morris West per il romanzo «Nei panni di Pietro». Nel film Kiril Pavlovich Lakota, metropolita di Leopoli, liberato dopo 17 anni in un «gulag», diventa Papa Kirill.
«Era convinto che il nemico si annidasse ovunque, anche in Vaticano» scrive Andreotti: «Almeno in una occasione i sospetti risultarono infondati. Mi chiese per iscritto il 16 febbraio 1976 di aiutarlo a far verificare se nella sua abitazione in Vaticano fossero state collocate microspie. La “pulizia” dell’appartamento doveva accertarlo in totale segretezza. Provvidi alla squadretta di specialisti: se davvero si fossero trovate avrei avvertito la Segreteria di Stato. Il sopralluogo risultò negativo».