«Hai visto Victor? Si è rovinato per una cavolata». Sono appena arrivato da un gruppetto di ragazzi in piazza. Parlano di Victor e della sua banda, qui li conoscono tutti. Intuisco una cosa sola: in tutti c’è il sollievo di non essere al posto di quelli là che hanno lanciato una bici dai Murazzi riducendo n fin di vita un loro coetaneo.
Potrebbe succedere a tutti infatti di perdere il controllo, di combinarne una più grande del solito. I ragazzi lo riconoscono, si ergono a giudici severi e implacabili. Non solo degli altri, anche di se stessi, come Francesco Lomanto, il quale, dopo aver ammazzato un uomo, non si sa bene perché, esclamò tra le lacrime: «Mi sono rovinato la vita!». Aveva già espresso la sua condanna prima ancora che il giudice gliela convalidasse in anni di carcere.
Regole: i ragazzi ne sentono il bisogno, anche se non lo dicono, ma vengono da noi adulti a cercarle, per avere punti fermi d’appoggio. Capiscono quando le infrangono e per questo sono giudici così severi. In tutto questo chiedono una sola cosa: di essere presi sul serio, di non svalutare i loro gesti, o peggio di essere considerati bambini, loro che ogni giorno combattono per essere adulti.
Il gesto di Victor e della sua banda va preso sul serio e chiamato per quello che è: gettare una biciletta su gente inerme è un atto criminale. Non ci sono giustificazioni che tengono e se andiamo dai loro amici ci diranno la stessa cosa.
Per i ragazzi tu sei quello che fai. Non è questione di età anagrafica, perché le età della vita non si sostituiscono come le cartucce della stampante, te le porti dietro. In tutti rimane l’adolescente accanto al bambino e il vecchio si porta dietro bambino, adolescente e adulto. Siamo delle somme.
Cos’è questa maturità allora, dove si situa il confine tra le età, se non in un allargamento dello sguardo che sappia vedere distintamente l’opera e l’autore, l’errante e l’errore?
Le baby gangs non sono un fenomeno odierno, sono sempre esistite con nomi diversi. Per loro don Bosco aprì gli oratori, per far sentire loro che, al di là dei loro errori, sono persone degne d’amore e di rispetto.
Cito la bellissima lettera scritta da Luciana Littizzetto alla madre del cantante Blanco e letta in occasione della puntata di «Che tempo che fa» dello scorso 12 febbraio: «Lui sa che ha fatto una cagata, ma saprà farsi perdonare, perché anche questi figli schiodati sano sempre ritrovare la via del cuore».
Nulla è più frustrante di sapere che non c’è un cuore di cui ritrovare la via, un perdono da meritare, una possibilità di riscatto; per questo motivo prevenire non vuol dire moltiplicare le attività, ma affiancare i giovani con persone che sappiano aiutarli a riscoprire una dignità maggiore dei propri insuccessi, fallimenti, dei propri errori: «la cara e buona immagine paterna di voi quando nel mondo ad ora ad ora m’insegnavate come l’uom s’etterna» (Dante, Inferno. XV, 83-85)
Con queste parole immortali Dante tratteggia la figura dell’educatore sottolineando il valore del camminare insieme (ad ora ad ora) verso l’eternità.
L’eternità non sta chiusa dentro di noi, ma consiste nell’essere accolti nel cuore dell’altro, come ben sa quel ladrone pentito a cui Gesù sulla croce spalancò le porte del Paradiso. Per i credenti significa abbracciare quel Dio che, nell’amore, è sempre più grande di ogni peccato, di ogni bruttura, come dicono gli arabi: Allah-u akbar, Dio è più grande
Educatore è colui che sa mostrare al giovane che c’è sempre questa porta aperta, che la speranza non si chiude, basta solo che lui si decida ad entrare, come fa il padre di un racconto evangelico, quando il suo figlio maggiore non vuole entrare alla festa per il ritorno del minore. Non è buonismo, non si fanno sconti sull’errore, ma si aggiunge una possibilità di riscatto che consenta di uscire da quell’errore.
Tutto questo però ha un prezzo. Se i cristiani credono che il Figlio di Dio abbia dato la vita per mostrarci questa possibilità, non ce la possiamo mica cavare a basso costo. Educare richiede denaro, tempo e spazio. Non dà risultati nell’immediato, non si può quantificare, ci va molta pazienza, come in tutte le cose serie. Soprattutto, senza nulla togliere alla responsabilità di tutti in una comunità che vuole essere educativa, richiede che si conceda un credito di fiducia e di sostegno alle figure che si espongono maggiormente in questo compito delicato (genitori, educatori, insegnanti, allenatori e via dicendo).
Episodi come quelli a cui abbiamo assistito e a cui assistiamo ancora ci interrogano come comunità e come singoli: quanto amiamo i nostri giovani? Quanto siamo disposti ad investire in termini di risorse comunitarie e personali, di tempo, di spazi e pazienza perché sappiano di essere amati, sì da permettere loro di uscire dal bozzolo e librarsi nel futuro come uomini e donne capaci di speranza?
fr. Luca MINUTO, viceparroco Madonna di Campagna