«Sono convinto che l’azione di impegno per i lavoratori senza lavoro e le loro famiglie, come del resto i senza dimora e immigrati che vivono nell’Episcopio, sono una realtà importante che merita la più ampia considerazione da parte di tutti. Per cui non cesserò di essere loro vicino con ancora più intensità e attenzione. Ma nello stesso tempo, sono certo che la preparazione del nuovo Arcivescovo sul piano teologico e culturale sarà ancora di più un volano importante perché ogni povero si senta amato dal Signore e dalla Chiesa e le varie istituzioni della nostra città trovino nel Vangelo quel dono di grazia insostituibile per dare fiducia e speranza nell’amore di Dio e nella fraternità di chi, mediante la carità e l’accoglienza, scopre la bellezza e grandezza dell’incontro con Cristo». Così mons. Cesare Nosiglia dice alla «Voce e Il Tempo» all’indomani dell’annuncio del suo successore, don Roberto Repole, della sua intenzione – annunciata per la prima volta pubblicamente nell’ottobre scorso al Cottolengo, in occasione della presentazione del Bilancio di Missione della Piccola Casa della Divina Provvidenza – di rimanere a Torino, nella parrocchia Madonna Addolorata al Pilonetto, dedicando la sua «pensione» all’amata Chiesa di San Massimo.

Chi ha avuto, come noi cronisti della «Voce», la fortuna di seguire passo passo il ministero di mons. Nosiglia in diocesi, non si è stupito della sua scelta di rimanere in città per proseguire il suo servizio, soprattutto nei confronti della Torino che va avanti a scartamento ridotto: quella delle periferie, dei nomadi, dei carcerati, dei senza fissa dimora, degli stranieri, dei disoccupati, dei malati, degli anziani soli. Sono gli «scarti» della società, tanto cari a Papa Bergoglio, eletto al soglio pontificio il 13 marzo 2013, quasi tre anni dopo l’ingresso di Nosiglia a Torino (21 novembre 2010). Una «categoria di persone» poco considerata dalla Torino che va a piena velocità e che mons. Nosiglia in qualche modo anticipando papa Bergoglio, ci ha invitato a trattare con un occhio di riguardo mettendola al centro della nostra comunità cristiana. Un esempio su tutti è la Lettera pastorale ai Rom e ai Sinti, pubblicata il 24 ottobre 2012, «Non stranieri ma concittadini e familiari di Dio» con cui, a due anni dal suo ingresso in diocesi, chiariva a tutti lo stile del suo episcopato accanto agli ultimi.
Del resto la parola che più ricorre nei suoi discorsi, soprattutto rivolti ai lavoratori dell’ex Embraco e molti altri, ai manager e ai politici che hanno un ruolo centrale nella soluzione della crisi è «dignità». Dare dignità è il leitmotiv dell’episcopato di Cesare, «padre, fratello e amico», perché «senza dignità non c’è speranza e finiamo tutti per accettare miseria e diseguaglianze». Così ogni volta recandosi in visita in carcere al «Lorusso e Cutugno» e al minorile «Ferrante Aporti», ha assicurato ai reclusi che avrebbe fatto il possibile perché i penitenziari cittadini venissero considerati dalla comunità cristiana «come parrocchie della diocesi».
«Chi altri come i Santi sociali che tutti conosciamo sono i nostri più validi ed efficaci maestri di vita e di umanità e fede di cui c’è oggi tanto bisogno nella nostra città e paese? Mi auguro che tutti i credenti e gli uomini e donne di buona volontà che vivono nel nostro territorio si sentano chiamati in causa per ritrovare slancio di fede e di amore da vivere e testimoniare con impegno e determinazione», conclude l’Arcivescovo, «io negli 11 anni del mio ministero a Torino ho imparato ad apprezzare quanti umanamente appaiono solo bisognosi di cura e di attenzione, quando invece posseggono una serie di valori non solo importanti ma decisivi per tutta la nostra Chiesa e comunità civile. Sì, mi sono abituato ad ascoltare e imparare da loro una grande serie di insegnamenti che mi hanno arricchito molto sul piano della fede e dell’amore vicendevole. Per questo li avvicinavo volentieri, non tanto e solo per dare aiuto e sostegno di cui avevano anche bisogno, ma per ascoltarli come maestri di Vita e di amore più di quanto io potessi loro dare. Per questo sento di avere verso di loro un dovere di riconoscenza che porterò con me per sempre». Grazie mons. Cesare.