Parte da Gerusalemme il Giro d’Italia, nel ricordo di Bartali

Il 101° Giro d’Italia è partito il 4 maggio da Gerusalemme, chiuderà dopo 3.562,9 chilometri e 21 tappe a Roma il 27 maggio. Si corre nel ricordo del «postino» Gino Bartali, magnifico corridore, campione nella vita e nello sport, nel 2013 riconosciuto «Giusto tra le Nazioni» e «cittadino onorario» dello Stato di Israele. Durante la Seconda Guerra Mondiale salvò molti ebrei

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Gino Bartali

Un grande campione di ciclismo, un cardinale, un rabbino, due tipografi comunisti sono protagonisti di una storia incredibile della seconda guerra mondiale: la salvezza di 800 tra ebrei e soldati alleati.

Il 4 maggio 2018 da Gerusalemme parte, 176 ciclisti in 22 squadre, il 101° Giro d’Italia che chiuderà dopo 3.562,9 chilometri e 21 tappe a Roma il 27 maggio. Nel ricordo del «postino» Gino Bartali, magnifico corridore, eterno rivale-amico dell’altro grande del ciclismo, Fausto Coppi. Bartali, campione nella vita e nello sport, nel 2013 riconosciuto «Giusto tra le Nazioni» e «cittadino onorario» di uno Stato nato 70 anni fa.

Quello che l’opinione pubblica ignora è che era un ottimo cristiano. Classe 1914, nato a Ponte a Ema, piccolo borgo a due passi da Firenze. Il padre Torello nasconde in soffitta giornali socialisti. In bici pochi resistono a Gino, toscano dalla lingua tagliente, dal naso spropositato e dal cuore grande. Mussolini tenta di trasformarlo in alfiere del regime e lo sprona a indossare la camicia nera. Ma «Ginetaccio» rifiuta sempre. La sua impresa più grande è il Tour de France 1938, prova di sopravvivenza con una trentina di tappe, più di 4.000 chilometri e molte scalate. Costretto dai fascisti a saltare il Giro d’Italia per prepararsi alla Grande Boucle, all’arrivo della  tappa a Briançon – dopo i massacranti Col d’Allos, Col de Vars e Col d’Izoard – taglia il traguardo con più di cinque minuti di vantaggio sul secondo e 17 minuti sulla maglia gialla. Riporta un’affermazione perentoria sfruttata a fini propagandistici per arruolarlo tra le icone sportive dell’Italia littoria, a fianco di Primo Carnera e della nazionale di calcio, campione del mondo nel 1934 e nel 1938.

Atleta cristiano e non superuomo fascista, cattolico praticante, membro dell’Azione Cattolica, devoto alla Madonna, porta il mazzo di fiori a Nôtre-Dame. Il duce non apprezza che dedichi le vittorie a Santa Teresa di Lisieux, alla Madonna di Lourdes, al Papa. Lo invita a Roma e gli fa fare due ore di anticamera: «Siete voi Bartali? Complimenti» e gli regala una medaglia d’oro. Ben altra cosa rispetto all’udienza con Pio Xl. Racconta il figlio Andrea: «Mio padre fece controllare la medaglia da un gioielliere suo amico: era di finto oro e la buttò in Arno».

Nell’autunno 1943 il campione accetta la proposta del cardinale arcivescovo di Firenze Elia Dalla Costa, anche lui «Giusto fra le nazioni», e del rabbino Nathan Cassuto, di far parte di una rete clandestina alla quale manca il «postino» che recapiti i documenti. Già nascondeva alcune persone nella cantina di una sua casa. Racconta Andrea Bartali: «Dalla Costa gli propose di diventare il messaggero dell’organizzazione di soccorso ai profughi ebrei. Gli chiese di andare in bici ad Assisi nascondendo i documenti che doveva consegnare al francescano Rufino Niccacci per essere trasformati in carte d’identità false nella tipografia dei Brizi. Mio padre ci pensò una ventina di secondi e poi chiese: “Quando si parte?”».

Molti ebrei nascosti in Toscana e Umbria scampano così ai campi di concentramento. Tra i cospiratori anche i tipografi comunisti Luigi e Trento Brizi e il vescovo di Assisi mons.  Placido Nicolini. Mantenendo il segreto anche con la moglie, infila documenti, foto e lettere arrotolati nel telaio o nel sellino, nella canna o nel manubrio della bici da corsa. Pedala per 254 chilometri nella tratta Firenze-Assisi (177) e ritorno. Per essere ben riconoscibile indossa una maglia con la scritta Gino Bartali davanti e dietro. Data la sua fama non viene fermato. Se si imbatte in un posto di blocco fascista, non tradisce alcuna emozione, fa il compagnone, firma autografi e dispensa battute. Ha sempre pronta una strategia d’uscita: «Non posso fermarmi perché sono troppo sudato; devo andare al più presto dal meccanico perché mi si sta sgonfiando la gomma».

Dopo il conflitto, Bartali e Coppi con le loro imprese diventano il simbolo della rinascita d’Italia, marchio di fabbrica di quegli anni: la capacità di lavorare e soffrire. Dieci anni dopo il primo trionfo, il 14 luglio 1948, Antonio Pallante, un esagitato giovane anticomunista, attenta alla vita di Palmiro Togliatti, il «migliore, segretario del Partito comunista. Decine di migliaia di manifestanti in tutta Italia salgono sulle barricate e incitano alla rivoluzione. L’Italia per qualche ora rischia di ripiombare nella guerra civile. Ma dalla Francia giungono notizie sul trionfale andamento del Tour: con due azioni magistrali e centinaia di chilometri di fuga solitaria, dopo aver scalato l’Izoard e il Galibier, Bartali recupera 20 minuti al francese Louison Bobet. Indossa la maglia gialla che porta in trionfo al Parc des Princes il 15 luglio. I francesi lo chiamavano «le pieux, il pio». Eroe nazionale, l’Italia dell’iperbole giornalistica parla di «magnifico atleta cristiano, arrampicatore divino, arcangelo della montagna». Scatena un tale entusiasmo che tutti pensano al suo trionfo e la guerra civile è evitata.

Anticonformista, si presenta senza cravatta al Quirinale ed è ricevuto con i gregari dal presidente della Repubblica Luigi Einaudi.

Il campione muore a 86 anni il 5 maggio 2000. Racconta il giornalista fiorentino Oliviero Beha nel bel libro «Un cuore in fuga» (Piemme, 2016): «Quando Gino è morto non fu possibile chiudere la camera ardente di notte per il flusso ininterrotto e nutritissimo di chi voleva salutarlo: alle 4 del mattino in molti, operai in tuta da lavoro o agricoltori in tenta da contadino come una volta, erano lì fuori che piangevano».

Solo dopo la morte si scopre l’eroe della Resistenza e la sua azione in favore dei perseguitati del nazifascismo. Il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi nel 2005 gli conferisce alla memoria la medaglia d’oro al valore civile. Nonostante la notorietà, rimane sempre umile: «Il bene va fatto ma non bisogna dirlo. Non voglio essere ricordato come un eroe. Andare in bicicletta è il mio mestiere e lo devo fare: l’ho messo a disposizione di chi in quel momento aveva bisogno».

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