A novembre la Conferenza episcopale italiana valuterà se e come recepire nel Messale la traduzione aggiornata del Vangelo di Matteo, che nel 2008 modifi cò il vecchio «non ci indurre in tentazione» con la nuova formula «non abbandonarci alla tentazione». Padre Eugenio Costa, gesuita, liturgista, già direttore del Centro teologico di Torino e collaboratore per decenni dell’Ufficio liturgico della nostra diocesi, è stato invitato, alla fine degli anni ’80, a partecipare all’équipe Cei incaricata della revisione della Bibbia Cei 1974, prima per il Nuovo Testamento, e poi anche per i salmi, che ha avuto come esito finale la Bibbia Cei 2008. Attualmente lavora nella Casa generalizia della Compagnia di Gesù a Roma e collabora ancora con l’équipe di revisione delle antifone d’introito e di comunione del Messale Romano in italiano, che dovrebbe venir approvato dalla Cei appunto a novembre. Abbiamo chiesto a padre Costa un intervento sulla nuova versione della preghiera del «Padre nostro» alla cui revisione ha collaborato. Si tratta del versetto «… e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male» (Mt 6, 13). (N. B. la versione del «Padre nostro» nel Vangelo secondo Luca [Lc 11, 4] ) ha soltanto la prima parte di questo versetto) (m.lom).
Non da oggi soltanto, ma sovente anche in passato, il «non ci indurre in tentazione» ha creato difficoltà in chi prega, sia fra i comuni fedeli che fra gli stessi teologi. Personalmente non sono in grado di risalire all’autore della traduzione italiana di questo versetto dall’originale biblico latino, a sua volta traduzione dal greco. Mi tenta l’ipotesi che, per il testo in italiano del «Padre nostro», si possa risalire al Catechismo di san Pio X (1905), che aveva dietro di sé il plurisecolare Catechismo di san Roberto Bellarmino (1597-8): questi testi paradigmatici contenevano infatti anche le preghiere fondamentali del buon cristiano (e forse si può scandagliare ancora più indietro nella storia).
Sembra comunque ovvio pensare che i catechismi siano sempre stati redatti in italiano. Probabilmente gli studiosi hanno identificato meglio i possibili autori della versione italiana del «Padre nostro», che abbiamo ereditato fino ad oggi, anche perché inclusa nell’Ordinario della Messa del Messale Romano in italiano, ma non sono riuscito a prenderne conoscenza.
Sta di fatto che tradurre «et ne nos inducas in tentationem» con «e non ci indurre in tentazione» vuol dire ricorrere al «calco» (cioè all’italianizzazione sbrigativa di un termine preso da un’altra lingua) di «inducas» con «indurre». Ora, «inducas» (da «inducere») in latino significa «condurre, introdurre». L’originale greco («eis-fero») viene inteso in senso permissivo: qualcosa come «lasciar entrare». Ma in italiano il termine «indurre» è usato soprattutto in un contesto negativo: «muovere, spingere qualcuno al male».
La connotazione pesante è troppo forte perché la si possa intendere in senso più neutro, edulcorato; di qui la difficoltà a dire qualcosa che sembra prestare al Padre la possibilità, anzi la volontà, di spingerci al male, cosa dalla quale lo imploriamo di astenersi!
Abbiamo due piste buone per chiarire il problema e individuare qualche soluzione. La prima consiste nell’analizzare meglio il termine «tentazione»; la seconda richiede di capire in modo più pertinente che cosa, o meglio chi sia, il «male» da cui chiediamo di essere liberati.
Il termine «tentazione», nel suo retroterra greco, ha il duplice significato di «prova» e di «tentazione». La «prova» può essere sfogliata secondo i suoi sinonimi: verifica, controllo, esame, saggio, test, da cui: essere provati, messi alla prova; essere a tutta prova; fedeltà e tenacia nella prova, nelle prove della vita; riuscire, fallire nella prova. È una realtà di base nella nostra esperienza umana e nessuno, in grado minore o maggiore, vi sfugge. La «tentazione» indica l’insinuare il male, suggestionare, istigare, sedurre, traviare, in breve spingere al male. Si è tentati, indotti; si resiste a una tentazione; si tergiversa, si cede, si pecca. Anche questo è parte del vivere umano.
In sintesi, una tentazione è sempre una prova, ma non ogni prova è una tentazione. La prova può diventare una tentazione se qualcuno ne prende l’iniziativa: la nostra fragilità, o, secondo il Vangelo, il demonio stesso.
Gesù ha conosciuto ambedue le situazioni: i momenti più forti sono stati i quaranta giorni che scelse di passare nel deserto (Mt 4, 1-11 e paralleli) e il Getsemani (Mt 26, 36-46 e paralleli). Nel deserto, accetta la prova della solitudine e la sfida con il Tentatore; nel Getsemani, supplica due volte il Padre (Mt 26. 39 e 26,42) di non dover bere al calice della sofferenza. Nella prova, ambedue le volte, si è innestata la pesante tentazione di rinunciare alla propria missione.
I suoi discepoli sono spesso messi alla prova durante il ministero pubblico di Gesù, e ne escono sovente vittoriosi («Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna!» (Gv 6, 68), ma alla prova della Passione e della Croce, vengono meno: la prova è divenuta una tentazione, la tentazione di azzerare la loro specifica vocazione.
In sintesi, Dio non ci tenta al male, ma ci mette alla prova (cfr. Gc 1,13). Sta a noi vegliare e pregare (cfr Mt 26, 41). Da parte nostra, sarebbe insensato mettere Dio alla prova (cfr 1 Cor 10. 9). Rimaniamo consapevoli della nostra fragilità, con cui rischiamo di fallire l’esame, scivolando dalla prova alla tentazione e cedendo al «Maligno». Un cristiano «provato» è colui che è passato attraverso le prove, sapendo discernere, nello Spirito, questa situazione dalla vera e propria tentazione. Secondo i ripetuti avvertimenti del Vangelo, il demonio cerca di sfruttare lo stato di prova, perché è il «Tentatore», il «Seduttore». Dalla sua torbida azione chiediamo di essere salvati, liberati. Paolo ci assicura che non saremo tentati oltre le nostre forze (cfr 1 Cor 10, 13). Prova e tentazione rientrano nello spazio dove la nostra libertà è chiamata a muoversi con fedeltà e tenacia, sapendo bene che il passaggio attraverso la Croce del Signore può essere la via alla vita.
In questo quadro generale più ampio, siamo forse meglio in grado di cogliere il senso della terza domanda del «Padre nostro». Si potrebbe azzardare: «Nella prova, non ci abbandonare, ma salvaci dal Tentatore», una versione certo un po’ libera e non strettamente letterale, ma forse espressiva. È tuttavia probabile che la scelta della Conferenza episcopale italiana, che si riunirà a novembre per la valutazione definitiva dell’ultima versione del Messale Romano in italiano, che include evidentemente il «Padre nostro», vada a favore di un testo letteralmente più aderente all’originale greco-latino.