«Non si può credere in Dio ed essere mafiosi». Alla Messa di sabato 15 settembre 2018 a Palermo per il 25° dell’assassinio del beato Pino Puglisi, ucciso dai «picciotti», Papa Francesco manda un nuovo, severo monito ai mafiosi: «Smettete di pensare a voi stessi e ai vostri soldi, convertitevi al vero Dio di Gesù Cristo». Invito che richiama quello, drammatico, di Giovanni Paolo II il 9 nmaggio 1983, nella Valle dei Templi di Agrigento, dopo l’assassinio dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: «Nel nome di Cristo, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!».
Bergoglio esordisce: «Chi odia suo fratello e dice di amare Dio è un bugiardo perché sbugiarda la fede che dice di avere, la fede che professa Dio-amore. La parola odio va cancellata dalla vita cristiana. Non si può credere in Dio e sopraffare il fratello. Chi è mafioso non vive da cristiano, perché bestemmia il nome di Dio-amore. Abbiamo bisogno di uomini e donne di amore, non di uomini e donne di onore; di servizio, non di sopraffazione. Abbiamo bisogno di camminare insieme, non di rincorrere il potere». Spiega: «Se la litania mafiosa è “Tu non sai chi sono io”, quella cristiana è “Io ho bisogno di te”. Se la minaccia mafiosa è “Tu me la pagherai”, la preghiera cristiana è “Signore, aiutami ad amare”. Ai mafiosi dico: cambiate, fratelli e sorelle, Smettete di pensare a voi stessi e ai vostri soldi. Voi sapete che “il sudario non ha tasche”. Voi non potrete portare niente con voi. Convertitevi al vero Dio di Gesù Cristo. Dico a voi, mafiosi: se non fate questo, la vostra vita andrà persa e sarà la peggiore delle sconfitte».
Chi ha vissuto la propria vita «povero tra i poveri della sua terra» è stato don Pino Puglisi: «Non viveva per farsi vedere, non viveva di appelli anti-mafia e nemmeno si accontentava di non far nulla di male, ma seminava il bene». Alla logica del dio-denaro ha contrapposto la bellezza del Dio-amore. È stata una vita vincente suggellata dal sorriso, anche nel momento della morte. Quando morì coronò la sua vittoria col sorriso, quel sorriso che non fece dormire di notte il suo uccisore, che disse: “C’era una specie di luce in quel sorriso”. Era inerme, ma il suo sorriso trasmetteva la forza di Dio: non un bagliore accecante, ma una luce gentile che scava dentro e rischiara il cuore».
Quindi c’è bisogno «di tanti preti del sorriso, di cristiani del sorriso, non perché prendono le cose alla leggera ma perché sono ricchi soltanto della gioia di Dio, perché credono nell’amore e vivono per servire. Don Pino non sapeva che rischiava e che il pericolo vero è vivacchiare tra comodità, mezzucci e scorciatoie. Dio ci liberi da una vita piccola, che gira attorno ai “piccioli”; ci liberi dal pensare che tutto va bene se a me va bene, e l’altro si arrangi; ci liberi dal crederci giusti se non facciamo nulla per contrastare l’ingiustizia. Chi non fa nulla per contrastare l’ingiustizia non è un uomo o una donna giusto»
Nella precedente tappa di Piazza Armerina, riconosce le croci e le sofferenze della Sicilia: «Di fronte a tanta sofferenza, la comunità ecclesiale è vivace e profetica mentre ricerca nuovi modi di annunciare e offrire misericordia». Ecco le piaghe che affliggono la Sicilia: sottosviluppo sociale e culturale; sfruttamento dei lavoratori e mancanza di dignitosa occupazione per i giovani; migrazioni; usura, alcolismo, gioco d’azzardo; sfilacciamento dei legami familiari. Un’evangelizzazione a partire proprio dalle croci e sofferenze. Invita a costruire «una Chiesa misericordiosa, sempre più fedele al Vangelo e aperta all’accoglienza di quanti si sentono sconfitti nel corpo e nello spirito, o sono relegati ai margini». Invita a leggere tutti giorni un passo del Vangelo: «Non prende più di cinque minuti».
Invita nuovamente i preti a fare prediche corte: «Quante volte ho sentito: “Io non vado a Messa, non vado più a Messa”. Perché? “Perché la predica mi annoia, dura quaranta minuti!” No, quaranta minuti deve durare la Messa tutta. La predica più di otto minuti non va, eh?».
Parla di «una vita vincente» come quella di Gesù e del martire don Giuseppe Puglisi: «Una vita vincente è quella indicata da Gesù che ribalta logiche errate e i modelli proposti anche dalla pubblicità. Non è dunque una vita vincente quella di chi ha successo, di chi “moltiplica i suoi fatturati”. La via mostrata da Gesù è quella dell’amore umile: solo l’amore libera dentro, dà pace e gioia. Il vero potere è il servizio. E la voce più forte non è quella di chi grida di più, ma la preghiera. E il successo più grande non è la propria fama, ma la propria testimonianza. L’unico populismo possibile, l’unico populismo cristiano è sentire e servire il popolo, senza gridare, accusare e suscitare contese».
Sulla tomba di don Puglisi nella chiesa San Gaetano di Brancaccio sono incise le parole di Gesù: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Giovanni 15,13). Il Papa commenta: «Queste parole ricordano che dare la vita è stato il segreto della sua vittoria, il segreto di una vita bella. Scegliamo anche noi una vita bella». Sul registro dei visitatori Bergoglio scrive: «Nel 25° della morte martiriale di don Pino Puglisi ringrazio il Signore per la sua testimonianza e chiedo che il suo sangue diventi chicco di nuova vita cristiana. Auguro che l’esempio di don Pino faccia nascere tante vocazioni».
Con la sosta sulla tomba del beato si conclude – per ora – il pellegrinaggio di Francesco sulle tracce dei santi testimoni d’Italia del XX secolo: il 20 giugno 2017 sulle tombe dei parroci don Primo Mazzolari a Bozzolo (Cremona) e don Lorenzo Milani a Barbiana (Firenze); il 7 marzo 2018 a Pietrelcina (Benevento) e San Giovanni Rotondo (Foggia) per San Padre Pio Forgione; il 20 aprile 2018 ad Alessano (provincia di Lecce) e a Molfetta (Bari) per mons. Torino Bello; il 10 maggio 2018 a Nomadelfia (Grosseto) dal prete-profeta Zeno Saltini e a Loppiano (Firenze) per la laica Chiara Lubich.
La lezione di don Puglisi
Non è il primo prete ucciso dalla mafia ma è il primo parroco proclamato beato per martirio «in odium fidei» perpetrato dalle cosche. Venticinque anni fa, il 15 settembre 1993, don Pino Puglisi cade sotto i colpi dei sicari, i «picciotti» dell’esercito mafioso al comando dei fratelli Graviano, che vogliono zittire la sua voce libera e mettere fine alla sua opera. Ammetterà Gaspare Spatuzza «Si portava i picciriddi cu iddu, i bambini con lui. Voleva il nostro territorio». Per i mafiosi il prete di Palermo è pericoloso quanto i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Il 15 settembre 2018 Papa Francesco visita Piazza Armerina e Palermo sui luoghi di don Puglisi, prete a tutto tondo che segna una svolta nel modo di essere nella Chiesa martoriata dalla mafia.
La sua vita è legata a Brancaccio, quartiere di Palermo, dove nasce il 15 settembre 1937, figlio di un calzolaio e di una sarta: verrà ucciso nella stessa borgata, il giorno del 56° compleanno. A 16 anni nel 1953 entra in Seminario a Palermo. Sacerdote dal 2 luglio 1960, si impegna in molti ministeri: viceparroco e rettore di San Giovanni dei lebbrosi; cappellano dell’orfanotrofio «Roosevelt»; parroco a Godrano; prorettore del Seminario minore e direttore del Centro vocazioni; insegnante di religione al liceo classico; animatore di Azione Cattolica, Fuci, Équipes Nôtre-Dame; si occupa della «Casa Madonna dell’accoglienza» e dell’«Opera cardinale Ruffini» per ragazze in difficoltà. Parroco dal 29 settembre 1990 a San Gaetano di Brancaccio inizia un incessante lavoro tra i giovani e le famiglie: per questo suscita le «attenzioni» della mafia che, tre anni dopo, lo uccide. Il 25 maggio 2013 è beatificato a Palermo.
Il 10 settembre 1953 scrive: «Seguendo le ispirazioni del Signore che mi ha illuminato sulla vanità delle cose terrene e sulla grandezza della sua grazia, ho deciso di dedicarmi al servizio della sua gloria e al bene delle anime». E alla vigilia del sacerdozio: «Accetta, o Signore, l’olocausto della mia vita, che io sia strumento valido per la salvezza del mondo». Come don Lorenzo Milani, sa che senza la scuola, la vita dei ragazzini se la prendono la strada e la mafia. Per questo nel 19991 costituisce il «Centro Padre nostro», scuola in cui i ragazzi possono giocare, studiare e sfuggire agli artigli della criminalità.
Nel settembre 1993 i giornali definiscono Brancaccio «il quartiere di Palermo a più alta densità mafiosa». Giovani su una grossa moto lanciano bombe molotov contro un furgone della ditta che sta restaurando la chiesa e incendiano le porte di tre membri del «Comitato intercondominiale» – così imparano a non fare riferimento alla mafia – nato in parrocchia per affrontare i problemi di Brancaccio.
Puglisi è parroco attento alla vita spirituale e al contesto sociale. Il 14 settembre, festa dell’esaltazione della Croce, celebra Messa tra le ragazze madri della «Casa Madonna dell’accoglienza» e spiega perché Gesù suda sangue: «Quando la paura diventa angoscia insopportabile, si rompono i capillari. Gesù sudò sangue per la paura del dolore che lo attendeva. Questo ce lo fa sentire come fratello. Da questo abbiamo conosciuto l’amore di Dio: ha dato la vita per noi e anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli. È difficile morire per un amico, ma morire per i nemici è ancora più difficile. Cristo è morto per noi quando ancora eravamo suoi nemici».
Per don Pino mercoledì 15 è una giornata intensa. Al mattino celebra due matrimoni; nel pomeriggio prepara alla confessione i bambini della Prima Comunione; una piccola festa al «Centro Padre nostro» che accoglie i ragazzi di strada; va in Comune a chiedere di utilizzare alcuni locali sotterranei per avviare la scuola media, bloccata dai politici locali conniventi con i caporioni – sarà aperta solo nel 2000 – che controllano spaccio, prostituzione minorile e combattimenti di cani.
Al rientro a casa, in piazzale Anita Garibaldi, mentre apre la porta, Salvatore Grigoli, «il cacciatore», gli prende il borsello: «Padre, questa è una rapina». Risponde con un sorriso: «Me l’aspettavo». «Un sorriso che mi è rimasto impresso. Gli sparai un colpo alla nuca». È l’assassino più spietato, 46 omicidi sulla coscienza, quello del don è l’ultimo: «C’era una specie di luce in quel sorriso. Un sorriso che mi aveva dato un impulso immediato. Non me lo so spiegare: ne avevo uccisi parecchi, però non avevo provato nulla del genere. Me lo ricordo sempre quel sorriso, anche se faccio fatica persino a tenere impressi le facce dei miei parenti. Quella sera cominciai a pensarci, si era smosso qualcosa».
Il «sorriso» del parroco martire cambia la vita di Salvatore: «Ho fatto cose che non si possono giustificare ma questa è stato il motivo del mio pentimento». Comincia un cammino di umanità e conversione, di espiazione e collaborazione con la giustizia. Dai verbali del processo canonico emerge che Leoluca Bagarella, capo di Cosa Nostra di Palermo, rimproverò aspramente i Graviano perché avevano aspettato tanto a uccidere il prete: «Se lo ammazzavano subito quando questo cominciò, oggi non sarebbe successo il finimondo che sembra che avevano ucciso un altro grande magistrato e invece era solo un prete». Al processo per l’assassinio nell’arringa il pubblico ministero Lorenzo Matassa ricorda: «La lotta alla mafia come i processi devono essere atti corali. La giustizia non è solo verità, ma è anche partecipazione umana, coinvolgimento, impegno civile continuo».
Il viaggio del Pontefice è un riconoscimento al metodo di annunciare il Vangelo nel quotidiano senza azioni straordinarie. Intende ricordare un parroco martire e dare un tributo alla missione di un sacerdote che ha offerto la vita per amore. Già alla beatificazione disse: «Don Puglisi è stato sacerdote esemplare, dedito specialmente alla pastorale giovanile. Educando i ragazzi secondo il Vangelo, li sottraeva alla malavita, e così questa ha cercato di sconfiggerlo, uccidendolo. In realtà, però, è lui che ha vinto, con Cristo Risorto».