«Nella pace che nasce dalla preghiera, ho sentito che avrebbe avuto un significato importante che alcuni frammenti delle reliquie dell’apostolo Pietro fossero poste accanto alle reliquie dell’apostolo Andrea». Papa Francesco, in una lettera del 30 agosto 2019 a Bartolomeo I, Patriarca ecumenico di Costantinopoli, chiarisce il significato del gesto che conferma «il cammino impegnativo e difficile che le nostre Chiese hanno compiuto per avvicinarsi, accompagnato dalla grazia di Dio».
Con un gesto che i media non percepirono, il 29 giugno 2019 il Pontefice consegnò le reliquie all’arcivescovo Job di Telmesso, capo della delegazione del Patriarcato alla festa dei Santi Pietro e Paolo: «Ho creduto che questo pensiero mi sia venuto dallo Spirito Santo che in tanti modi sollecita i cristiani a ritrovare la piena comunione. Continuare questo cammino richiede una conversione spirituale e una rinnovata fedeltà al Signore, che vuole da noi maggiore impegno e passi nuovi e coraggiosi». Difficoltà e disaccordi «non devono distoglierci dal nostro dovere e dalla nostra responsabilità come pastori della Chiesa, davanti a Dio e alla storia». La lettera ripercorre la storia del ritrovamento della tomba di Pietro.
La Chiesa di Roma da sempre crede che l’apostolo, dopo il martirio (64-67 dopo Cristo) nel Circo di Nerone, sia stato sepolto nella necropoli del Colle Vaticano. Sulla sua tomba, meta di pellegrinaggi, l’imperatore Costantino fa erigere la basilica di San Pietro, sostituita da quella rinascimentale del Bramante. Nel giugno 1939 Pio XII, avvia gli scavi sotto la basilica che portano alla scoperta del luogo della sepoltura e nel 1952 alla scoperta – sotto la «Confessione» – di una nicchia funeraria accostata a un muro rosso del 150, coperta di graffiti. Uno recita in greco: «Pietro è qui». Nel vano del «Muro G» oggi ci sono 19 teche trasparenti con i frammenti delle ossa di Pietro. Le indagini concludono che appartengono a uomo di corporatura robusta, morto in età avanzata, crocifisso a testa in giù.
Il reliquiario donato al Patriarca contiene 9 frammenti. La nicchia – aggiunge il Papa – contiene ossa che «ragionevolmente possono essere considerate dell’apostolo Pietro». Paolo VI conserva questi 9 frammenti nella cappella privata in un reliquiario di bronzo con l’iscrizione «Ex ossibus quae in archibasilicae vaticanae hypogeo inventa beati Petri apostoli esse putantur. Ossa trovate nella terra sotto la basilica vaticana ritenute di Pietro». L’ispirazione al dono è venuta «mentre riflettevo sulla nostra reciproca determinazione di procedere insieme verso la piena comunione, e mentre ringraziavo Dio per i progressi fatti» dal 5 gennaio 1964, quando Paolo VI e il Patriarca Athenagoras I si incontrarono a Gerusalemme. Athenagoras donò a Montini un’icona «che rappresenta i fratelli Pietro e Andrea che si abbracciano, uniti nella fede e nell’amore per il Signore». Ora l’icona si trova nel Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani ed «è diventata segno profetico della restaurazione della comunione visibile tra le nostre Chiese alla quale aspiriamo e per la quale preghiamo e lavoriamo». La riunificazione delle reliquie dei due fratelli è «un richiamo costante e un incoraggiamento perché, nel cammino che continua, le divergenze non siano un ostacolo alla nostra testimonianza comune e alla nostra missione evangelizzatrice al sevizio della famiglia umana, tentata di costruire un futuro senza Dio».
Nel radiomessaggio del 23 dicembre 1950 Pio XII annuncia il ritrovamento della tomba di Pietro: «Gli scavi sotto l’altare della Confessione, le ricerche della tomba e il loro esame scientifico sono stati condotti felicemente a termine. È stata veramente ritrovata la tomba di San Pietro? Alla domanda i lavori e gli studi rispondono con un chiarissimo “Sì”, la tomba del principe degli apostoli è stata ritrovata. Sono state rinvenute le reliquie del santo? Al margine del sepolcro furono trovati resti di ossa umane. Ciò lascia intatta la realtà storica della tomba. La gigantesca cupola s’inarca sul sepolcro del primo Vescovo di Roma, del primo Papa; sepolcro umilissimo sul quale la venerazione dei secoli con meravigliosa successione di opere eresse il massimo tempio della cristianità».
Uno dei ricercatori è il gesuita subalpino Antonio Ferrua. Nato a Trinità, provincia di Cuneo e diocesi di Mondovì il 31 marzo 1901, è un affermato archeologo ed epigrafista. Sacerdote nel 1930, laurea nel 1933 all’Università di Torino in Lettere classiche con una tesi sugli epigrammi di Damaso e laurea nel 1937 in Epigrafia cristiana al Pontificio Istituto di archeologia cristiana, nel 1940 è chiamato da Pio XII – che prediligeva i gesuiti – a lavorare nella necropoli vaticana. Ferrua è famoso per la disputa infinita con Margherita Guarducci, altra grande archeologa ed epigrafista, principale studiosa delle ossa che racconta le sue ricerche nei libri «Pietro in Vaticano» (1983) e «La tomba di San Pietro» (2000).
Bartolomeo risponde al Papa che «il dono è un passo cruciale verso l’unità»; indica come unica via per l’evangelizzazione il servizio al mondo; condanna gli incendi in Amazzonia; spiega le ragioni spirituali e teologiche dell’impegno per l’ambiente. Francesco, ricevendo il 14 settembre i vescovi orientali cattolici in Europa, parla di «ricchezza rituale della Chiesa policroma, mosaico e icona vivente di una testimonianza non uniforme. Le Chiese orientali sono depositarie di una missione specifica nel cammino ecumenico» in un mondo e in un tempo dove non mancano criticità e divisioni: «Mentre troppe disuguaglianze e divisioni minacciano la pace, siamo chiamati a essere artigiani di dialogo, promotori di riconciliazione, pazienti costruttori di una civiltà dell’incontro, che ci preservi dall’inciviltà dello scontro. Mentre tanti si fanno risucchiare dalla spirale della violenza e dal circolo vizioso delle accuse, il Signore ci vuole seminatori miti del Vangelo dell’amore».