Erano giovani gli attentatori che nella notte tra il 25 e 26 aprile del 2021 avevano fatto irruzione nella casa parrocchiale di Rumbek in Sud Sudan e avevano ferito gravemente padre Christian Carlassare, comboniano di Schio (VI), classe 1977, che pochi giorni dopo sarebbe dovuto diventare Vescovo della diocesi. Colpito alle gambe, salvato dai confratelli, curato prima in Kenya e poi in Italia è rientrato nel Paese agli inizi del 2022, e lo scorso 25 marzo a Rumbek si è finalmente svolta la sua ordinazione episcopale. Ora, come Vescovo colpito in prima persona dagli effetti di una situazione di continua tensione, e proprio con un gruppo di ragazzi e giovani sta per partire a piedi per andare a Juba, la capitale che dista circa 400 Km, ad accogliere Papa Francesco che dal 3 al 5 febbraio visiterà il Sud Sudan. Per i giovani, che nel Paese africano sono protagonisti e vittime di violenza, e con i giovani intende infatti compiere un percorso che veicoli gli inviti alla pace di Francesco. Lo abbiamo contattato prima della partenza del «pellegrinaggio», dopo alcune prove di «allenamento».

Padre Carlassare, che Paese è quello che oggi attende il Papa?
È un Paese che si è sentito abbandonato, che ha sofferto molto a causa del conflitto. È un Paese ricco di risorse, ma la cui ricchezza è fonte di divisione, mal spartita e mal utilizzata. Alcuni gruppi riescono ad avere accesso alle risorse, ma non danno vita ad una economia autoctona, mentre la popolazione vive sotto la soglia della povertà. Mancano servizi, la sanità è molto dubbia. I medici, pagati poco nella sanità pubblica, stanno passando in massa al settore privato, privando la popolazione di cure. Gli stipendi degli insegnanti sono solo di 20 dollari al mese, per cui il sistema scolastico è destinato al crollo. Inoltre i cambiamenti climatici stanno provocando irregolarità nelle precipitazioni, scarse durante la semina o troppo abbondanti, distruggendo le coltivazioni. Anche il livello del fiume Nilo cresce troppo e provoca alluvioni, per cui non si può mietere e produrre cereali per sfamare la popolazione.
Un Paese povero, ma prima della carenza delle risorse, c’è la mancanza di pace e di stabilità…
Le ferite e i traumi della guerra civile marcano ancora profondamente gli animi delle persone. Nel Paese ci sono troppe armi nelle mani di civili e milizie. La vita è condizionata da una cultura violenta che ha dominato per decenni. Le persone fanno fatica a cambiare ed entrare nell’ottica che sia possibile migliorare le proprie condizioni attraverso il lavoro, si possa risolvere i conflitti interetnici con il dialogo e accordi pacifici, si possa vivere nella tranquillità radunando insieme i diversi gruppi e clan piuttosto che mantenendo le distanze o eliminando chi rappresenta una minaccia, si possano avere risorse sufficienti per tutti superando la corruzione dilagante. Il cammino verso una convivenza più giusta e pacifica è purtroppo ancora lungo, ma non impossibile.
Su questo aspetto quale è l’impatto secondo lei della visita di Francesco?
Il cambiamento arriva quando iniziamo a fare le cose in modo diverso. Papa Francesco viene come pellegrino di pace. Sfida tutti noi ad incamminarci lungo lo stesso cammino. Richiama a un rinnovato impegno della Chiesa a lavorare per la pace e la riconciliazione insieme alle altre confessioni cristiane. La pace non è semplicemente un traguardo. Ma è un percorso. A volte un sentiero stretto, e dobbiamo percorrerlo tutto e tutti insieme. A volte camminiamo veloci, altre volte ci stanchiamo e camminiamo lentamente. A volte percorriamo la strada maestra, altre volte siamo confusi e divisi: alcune persone vogliono provare a destra, altre a sinistra, ma alla fine dobbiamo tornare insieme. Una cosa è certa, non taglieremo mai il traguardo se prima non abbiamo avuto il coraggio di partire, di iniziare il cammino della pace. E non sarà una vittoria se lo taglieremo da soli. Per arrivare alla pace, bisogna vivere la pace tutti insieme.
Il conflitto prolungato ha generato la fuga di migliaia di persone, che oggi vivono da sfollate. Nel viaggio di Francesco è previsto anche un incontro con loro, che significato ha?
Durante i miei tre anni a Juba (2017-2019), ho svolto il mio ministero pastorale nel campo per sfollati interni. Sono per lo più persone appartenenti all’etnia Nuer e molti di loro provengono dalle parrocchie seguite dai missionari Comboniani negli Stati del Jongley e dell’Unity. Queste persone sono state costrette a rifugiarsi nel campo a causa della violenza etnica scatenata nel dicembre 2013. Era un’emergenza, ma sono ancora lì impossibilitati a ricominciare una nuova vita. Mi dicono tristemente: siamo prigionieri nel nostro stesso Paese. Cosa impedisce loro di essere liberi cittadini, di tornare nelle loro case e ricominciare? Certo, il Santo Padre li incoraggerà e dirà loro che Dio non li ha mai abbandonati ed è presente ovunque si trovino, condividendo le loro sofferenze e dando loro forza. Dio darà loro la fiducia per credere nella pace e ricominciare con più coraggio. Allo stesso tempo, tutte le persone del Sud Sudan hanno sofferto allo stesso modo: insicurezza nelle proprie case, impossibilità di avere accesso alle risorse e lavorare per migliorare le proprie condizioni di vita. Penso che il Paese in vista delle prossime elezioni democratiche (si andrà ad elezioni nel 2024, ndr) debba impegnarsi per facilitare il rientro dei profughi e degli sfollati, favorire la ripresa economica attraverso il lavoro, garantire i servizi affinché le persone possano vivere serenamente.
Lei ha incontrato il Papa prima di rientrare nel Paese nello scorso marzo, ora da questo nuovo incontro nella terra della sua missione, come Vescovo cosa si aspetta?
Personalmente mi aspetto che la visita del Papa, richiami la Chiesa ad essere testimonianza di pace e riconciliazione con più energia, insieme alle altre denominazioni cristiane. Una Chiesa aperta e non chiusa nel proprio ovile. Una Chiesa che abbraccia tutti e conduce amorevolmente, senza lasciarsi conquistare dalle logiche di potere e prestigio che sono del mondo. Quindi mi aspetto un rinnovamento vero e profondo, che faccia tornare la Chiesa all’essenziale del Vangelo e dell’evangelizzazione, alla santità senza compromessi, al servizio dei poveri senza autocelebrazioni. Allo stesso tempo prego per una conversione del cuore perché tutti i cittadini capiscano che la pace deve trovare posto prima di tutto nei loro cuori, e che la società civile può costruire la pace una volta che si è liberata da ogni sorta di manipolazioni che si fondano su ignoranza, ideologia, timore della novità che ci viene dall’altro.
Un incontro atteso che ha deciso di preparare camminando con i giovani…
Il cammino costa sacrificio e fatica, come la pace che speriamo di costruire. Negli ultimi tempi abbiamo fatto quattro allenamenti per formare il gruppo che è di 80 persone e già una cosa importante che abbiamo constatato e che si sono uniti giovani non presenti nelle comunità cristiane, inizialmente dovevamo essere 50. Non so bene cosa ci sia nell’immaginario dei giovani a proposito del Papa, a volte non è così conosciuto, ma c’è la consapevolezza che questa sua visita è qualcosa di straordinario e così anche in loro è nato il desiderio di fare qualcosa insieme di straordinario: mettersi in cammino e tappa dopo tappa incontrare e coinvolgere altri giovani e altre comunità per cercare di superare odio e divisioni. Molti sicuramente si aggiungeranno ci accompagneranno per qualche pezzo… per tutti il messaggio sarà che per la pace non c‘è bisogno di armi, ma di convertire e disarmare i cuori. I giovani sognano un Paese diverso e vedono che il Vangelo porta questa novità di vita e nel modo di pensare e per questo ora camminiamo verso Juba ma la fine del cammino non sarà la capitale: noi vogliamo che da Juba ci sia una nuova partenza per portare a tutti il messaggio che il Papa ci lascerà.