Il secolo della dittatura in Cina

Storia – Cento anni fa all’origine del Partito comunista cinese, con Mao Tse-Tung c’erano 12 compagni: solo uno passò indenne fra battaglie, tradimenti e purghe. Sotto la guida di Mao il Partito comunista vince la guerra civile e fonda la Repubblica Popolare cinese, di cui dal 1949 è presidente a vita. Sviluppa un marxismo-leninismo «sinizzato», cioè il maoismo

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Mao Tse-tung

«L’uomo che permette alla Cina di alzarsi in piedi, trasformando una miriade di province devastate dalla guerra in uno Stato moderno, è stesso che nel 1958 infligge alla popolazione i costi altissimi di una pianificazione insensata come il “Grande balzo in avanti” – 20 milioni di morti nella carestia – e che nel 1966, per mantenere il potere, scatena la violenza e il fanatismo della “Rivoluzione culturale”. Mao Tse-tung, il condottiero della «Lunga marcia» culminata il 1°ottobre 1949 nell’unificazione del Paese sotto la dittatura della Repubblica popolare, è stato anche il modernizzatore capace di fare uscire un miliardo di cinesi dal Medioevo e il despota che nel Medioevo li ha ricacciati».

L’articolato giudizio dello storico e giornalista Paolo Mieli giunge nel centenario del Partito comunista cinese che consente all’attuale presidente-dittatore Xi Inping, vestito alla Mao, di minacciare: «Chi fa il bullo con la Cina troverà una muraglia d’acciaio», come gli studenti inermi massacrati dai carri armati in piazza Tienan-men» che la storiografia comunista considera un «incidente» che merita solo una nota a piè di pagina. Ricordare quei morti, le purghe del maoismo e i milioni di vittime è bollato come «nichilismo storico».

Cento anni fa all’origine del Partito comunista cinese, con Mao c’erano 12 compagni: solo uno passò indenne fra battaglie, tradimenti e purghe. Uno fu ucciso dai nazionalisti nel 1931; un altro cadde in battaglia; uno cadde nel 1935; uno fu giustiziato nel 1943 per tradimento; uno emigrò in Unione Sovietica; uno fuggì in Canada; uno fu ucciso sotto tortura durante la «Rivoluzione culturale»; un altro, purgato, morì a Pechino investito da un autobus mentre andava ai giardinetti; uno fu fucilato; due morirono in carcere. Tradì anche l’ultimo «apostolo comunista», ma fu perdonato perché serviva un memorialista che scrivesse la storia del Partito.

Nel 1949 il nazionalista Chiang Kai-shek batte in ritirata e l’immenso continente cade in mano al comunista Mao Tze-Tung: il «quattro volte Grande, Grande maestro, Grande capo, Grande comandante supremo, Grande timoniere» fonda la Repubblica popolare basata sul maoismo. Per decenni la storiografia cinese confonde la storia della Rivoluzione con la biografia del tiranno. Solo dopo la morte di Mao nel 1976 ricompaiono alcuni protagonisti. Liu Shaoqui, generale vittorioso della «Lunga marcia» e numero due del regime: nel 1957 critica la disastrosa politica economica ed è stroncato da una violentissima «campagna contro la destra» che lo porta in carcere e alla morte; Lin Piao, successore designato, nel 1971 è accusato di cospirare contro Mao e di guidare un «golpe» ed è liquidato in un misterioso incidente aereo. Sono due dei compagni che hanno sbagliato e pagato.

Sotto la guida di Mao il Partito comunista vince la guerra civile e fonda la Repubblica Popolare cinese, di cui dal 1949 è presidente a vita. Sviluppa un marxismo-leninismo «sinizzato», cioè il maoismo; collettivizza l’agricoltura con il «Grande balzo in avanti»; promuove l’alleanza con l’Unione Sovietica, che aveva largamente foraggiato il Partito comunista e Mao: il patto sovietico-cinese si rompe nel 1959. Successivamente l’influenza del maoismo si avverte soprattutto nei Paesi ex coloniali, mentre in Occidente offre una bandiera alle minoranze fanatiche, dedicate alla violenza, che si esauriscono e si annullano in lotte fratricide. Dal 1949 al 1953 Mao lancia la «Riforma agraria»; uccide in massa i proprietari terrieri; sopprime o manda ai lavori forzati i controrivoluzionari. Dopo la prima Costituzione nel 1954, dal 1955 al 1959 il despota lancia il «Movimento Sufan» e la «campagna contro la destra», perseguitando centinaia di migliaia di intellettuali e dissidenti politici. Nel 1958 lancia il «Grande balzo in avanti» che porta alla spaventosa carestia, la più grande e grave della storia umana, ecatombe completata dal «Movimento di educazione socialista» nel 1963.

Nel 1966 si scatena la «Grande Rivoluzione culturale». A ben guardare, quella di Mao è la storia delle rivoluzioni di morte. Scavalca la gerarchia comunista e affida tutto il potere alle «Guardie rosse», giovani, spesso ragazzini, che formano propri tribunali, catena di montaggio delle condanne a morte. Decine di milioni di cinesi muoiono di massacri e torture; altre decine di milioni sono perseguitati e un numero incalcolabile di siti culturali e librari, scientifici e religiosi sono attaccati e abbattuti. Le «Guardie rosse» distruggono la gran parte del patrimonio culturale, migliaia di antichi monumenti, ritenuti «retaggio della borghesia». In questo periodo Mao sceglie Lin Piao come successore, ma questi nel 1971 tenta un colpo di Stato militare, che fallisce e muore in un incidente aereo. Si stima che sotto il regime maoista siano stati massacrati tra i 40 e 80 milioni di cinesi e siano morti di fame 20 milioni di individui. Ma la popolazione cinese, molto prolifica, aumenta da 550 a 900 milioni e dal 1949 il tasso di alfabetizzazione passa dal 20 al 65 per cento.

Mao ha creato una Cina unificata e libera dalla dominazione straniera ma fomenta la guerra Cina-India, la guerra del Vietnam, l’ascesa dei Khmer rossi; invia truppe a combattere in Corea del Nord contro l’America e l’Occidente. Stabilisce rapporti con gli Stati Uniti e ottiene un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza dell’Onu. A Mao il «Libretto rosso» attribuisce una frase illuminante: «La rivoluzione non è un pranzo di gala; non è un’opera letteraria, un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza, o con altrettanta dolcezza, gentilezza, cortesia, riguardo e magnanimità. La rivoluzione è un’insurrezione, un atto di violenza con il quale una classe ne rovescia un’altra». Negli anni Settanta la Cina è condannata al «pauperismo egualitario». Con le sue riforme Deng Xiaoping suggerisce che «arricchirsi è glorioso» e i cinesi cominciano a farsi gli affari propri, preferendo Disney Shanghai al museo del Partito. Nel 2018, dopo che il XIX congresso che lo incorona segretario generale e presidente a vita, XiJinping porta i membri del Politburo a ripetere il giuramento di fedeltà al Partito: «È mia volontà sostenere il programma del Partito, osservarne rigidamente la disciplina, custodirne i segreti, combattere tutta la vita per il comunismo, essere pronto a sacrificarmi».

Massimo D’Alema, rimasto orgogliosamente comunista, ex presidente del Consiglio italiano, intervistato da «New China Tv», elogia «lo straordinario salto verso la modernità e il progresso compiuto dalla Cina: è il grande merito storico del Partito comunista cinese». Il già segretario della Federazione giovanile comunista italiana, già segretario nazionale del Partito democratico della Sinistra e già presidente dei Democratici di Sinistra tace che questo progresso è stato ottenuto su cadaveri a cumuli, ben più imponenti della «Grande muraglia cinese».

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