La storia raccontata nel suo libro «Il silenzio dell’amianto» da Alberto Gaino, per decenni cronista di razza su Torino e dintorni, ha più storie, tantissime, ma non potrebbe essere altrimenti. Se non altro per l’impianto poderoso che è alla base delle circa 330 pagine della pubblicazione. La raccolta è sistematica: carte giudiziarie e sentenze, testimonianze, analisi, perizie, documenti e, di rilievo, lo stato dei processi in Piemonte, seguiti all’indomani della sentenza della Corte di Cassazione del 19 novembre 2014. Una sentenza choc con la quale la Suprema Corte ha prescritto i reati imputati all’industriale e finanziere svizzero Stephan Schmidheiny, l’azionista principale della multinazionale Eternit con un portafoglio di azioni in almeno mille società, condannato per le centinaia di morti nei suoi stabilimenti in Italia, in primo grado e in Appello dal Tribunale di Torino.
Non è arbitrario dunque classificare il libro come la summa della conoscenza sull’argomento. Qualità che ne attesta in primo luogo il rigore metodologico scientifico, che per contrasto richiede lettori attenti e spiritualmente concentrati, perché la ricerca offre più piani di lettura, con un intreccio di avvenimenti remoti e attuali che porta direttamente al nerbo della questione: la sicurezza sui luoghi di lavoro. Un fattore che suona sempre come una campana a morte per il nostro Paese, afflitto da migliaia di infortuni mortali e non all’anno, di cui si parla con la pietas umana che finisce per occultare le responsabilità e soprattutto ignorare i rimedi. E ciò spalanca le porte a quella galleria di personaggi che nei diversi campi, magistratura, avvocatura, sindacalismo, amministrazione pubblica, Gaino cita senza enfasi, ma con il dovuto rispetto che si deve a chi si è esposto in prima linea per rivendicare e dare giustizia ai famigliari delle vittime, in primis in procuratori della Repubblica Raffaele Guariniello, Sara Panelli, Gianfranco Colace.
Da qui in rapida successione discendono o precedono (a seconda del vertice d’osservazione) l’attenzione all’ambiente, la tutela della salute dei cittadini, gli enormi oneri procurati per interessi privati alla collettività, una lista che diviene lunghissima non appena si elencano, e l’autore lo fa con chirurgica precisione, nomi che riassumono a cavallo tra il Novecento e il nostro secolo drammi, dolori e vittime a grappoli: Seveso, Eternit, Fibronit, Thyssenkrupp, Ilva, nel citare i più noti. E per effetto di trascinamento, Gaino ricorda le responsabilità e, soprattutto, i metodi per eluderle, sottolinea i ritardi nelle denunce e le tecniche per rinviare, rimandare, tergiversare su decisioni e soluzioni, molteplici tasselli di un comportamento che riproduce il noto mosaico – rimandato dalle cronache dei processi – di disinvolte efferatezze umane che costituiscono la nostra e altrui Spoon River. Perché se l’Italia conta le sue centinaia di morti all’anno per mesotelioma pleurico (il tumore che si contrae con l’esposizione alle fibre d’amianto, nonostante la messa al bando del prodotto negli anni Novanta del Novecento), il mondo deve fare i conti con una lugubre contabilità di decessi amianto correlati. Si calcola, infatti, che sono 225 mila le vittime all’anno; una catena di lutti in parte derivata dalle produzioni ancora attive in Russia, Cina, Brasile, Canada. Vite che si spengono in nome di una logica del profitto che redistribuisce in parti ineguali, sempre a sfavore di lavoratori e cittadini, sia la ricchezza, sia i costi sociali. Un epilogo drammatico per le comunità dai molteplici risvolti, di cui Casale Monferrato ha una sorta di primogenitura nell’analisi e nello studio di più discipline.
Per quasi l’intero Novecento, infatti, Casale ha rappresentato la capitale della produzione di cemento-amianto e la fabbrica, attiva fino agli anni Ottanta, ha garantito all’intera popolazione lavoro e identità. Essere dipendenti dell’Eternit era un privilegio. E negli anni l’identità dei casalesi – situazione che si riproduce ovviamente in altre aree del mondo – si è consolidata attorno all’idealizzazione di una potente madre/fabbrica che ha procurato benessere e sicurezza economica. I numeri sono una spiegazione plausibile di quell’approccio mentale: le assunzioni sono state complessivamente 4.879, di cui 3.365 solo nel periodo tra il 1950 e il 1980. In cambio, l’Eternit ha determinato un inquinamento assoluto per l’ingente utilizzo del materiale prodotto, sia come manufatti di copertura, sia come polvere di tornitura impiegata per sistemare strade private o come isolante del calore nei sottotetti.
Anche i materiali di scarto venivano sfruttati e la fabbrica distribuiva gratuitamente ai cittadini i materiali di lavorazione che per qualche difetto risultavano invendibili, il micidiale ‘polverino’. Per di più gli stessi dipendenti dell’Eternit, e alcuni passaggi del libro di Gaino sono illuminanti in proposito, erano inconsapevolmente i primi responsabili della dispersione delle fibre di amianto nell’ambiente: essi portavano gli indumenti da lavoro nelle loro abitazioni e spesso lasciavano aperte le finestre dei reparti durante la produzione e durante il trasporto e lo scarico delle forniture. In città era dunque quasi impossibile evitare l’amianto. Esemplificativo in questo senso è il caso delle ‘spiagge bianche’: i residui di lavorazione che l’Eternit riversava nel Po si depositavano sulle sponde del fiume formando spiagge dove i casalesi si recavano durante le giornate solari.
Immagini fluviali, idilliache, rotte come un incantesimo dalla scoperta di una realtà brutale. E questo ci riporta alla madre di tutte le battaglie processuali, sindacali, politiche e di mobilitazione del basso, quando divenne conclamata la pericolosità dell’amianto, che fino allora era derubricata come asbestosi, malattia professionale, di competenza dell’Inail e non degli obitori. Fu una battaglia fortemente voluta dell’allora sindaco Riccardo Coppo, cattolico, eletto nelle file della Democrazia Cristiana, precocemente scomparso per una singolare volontà del destino, i cui funerali si sono tenuti il 3 dicembre del 2014, a 27 anni di distanza da quel 3 dicembre 1987 in cui firmò l’Ordinanza comunale che proibiva la produzione e la commercializzazione di prodotti Eternit. La sua fu una decisione di grande coraggio, lungimirante e anticipatrice dell’intervento dello Stato che recepì la decisione del Comune di Casale soltanto il 27 marzo del 1992 con la legge n. 257. Un ritardo che procrastinò – non è un elemento secondario – le legittime richieste previdenziali e risarcitorie di centinaia di lavoratori italiani.
L’amianto, come avrebbero dimostrato negli anni successivi gli epidemiologici, produce patologie polmonari dieci volte superiori alla media nazionale per chi vi è esposto e inala il micidiale ’polverino’ con cui sono stati pavimentati a Casale cortili privati, strade e addirittura spazi oratoriali. Su tutti i tumori polmonari, ad affermarsi è il mesotelioma pleurico dall’impatto devastante sul piano fisico con dolori, disturbi respiratori, spossatezza, disturbi del sonno, perdita dell’appetito. Oggi il tasso medio di sopravvivenza è di circa nove mesi dalla diagnosi e solo otto pazienti su cento sono ancora vivi a tre anni. Per di più, concordano gli oncologi, il tempo di latenza fra l’esposizione e la manifestazione della malattia varia tra i venti e i quarantacinque anni – probabilmente a causa delle molteplici mutazioni geniche del mesotelioma – e solo tardivamente compaiono sintomi specifici. Un aspetto noto alle popolazioni a livello consapevole come problema generale. Ma, come è stato rilevato da una ricerca in loco, a Casale, condotta dal gruppo della professoressa Antonella Granieri, direttore della Scuola di Specializzazione di Psicologia Clinica dell’Università di Torino, «le situazioni traumatiche sono difficilmente declinabile in soluzioni di accoglimento, sostegno e cura: un vero e proprio dramma comunitario».
Nell’uso comune parlare di dramma conduce in un luogo mentale in cui sembra perdere peso la portata delle argomentazioni, del disvelamento di eventuali compromessi con la realtà in cui si vive. Il dramma incarna il punto più alto del malessere, del dolore, una sorta di punto di non ritorno da cui scaturiscono decisioni estreme e spesso a-specifiche. Vivere a Casale ha dunque comportato per la popolazione divenire protagonista di un dramma sociale che ha portato in campo malattia e morte con una specifica connotazione geografica: l’esperienza traumatica si è legata ai luoghi di lavoro – e dunque reddito– e ha colpito l’intera comunità residente nell’area.
In conclusione, i crimini d’impresa sono essenzialmente ambigui per il legame che si crea rispetto a tre vertici ricorrenti. Il primo riguarda le aziende, sprezzanti nell’incarnare l’assunto che produzione e produttività siano bisogni primari del modello di società che impongono, a costo di esercitare una sistematica violazione della legge. Il secondo riguarda le Istituzioni e lo Stato, spesso distratti o incapaci di esercitare una concreta tutela della salute. Il terzo riguarda i lavoratori, schiacciati dalla necessità della sopravvivenza o di uno stile di vita che il più delle volte non riconoscono neppure di subire. La tragedia dell’Eternit e di altre simili è anche questo.