Il sindaco Lo Russo al Cottolengo

Torino – La Vigilia di Natale 2021 il sindaco Stefano Lo Russo ha visitato la Piccola Casa della Divina Provvidenza. Accompagnato dal Padre generale, don Carmine Arice, ha sostato davanti all’urna di san Giuseppe Benedetto Cottolengo; ha incontrato gli ospiti delle tre RSA; ha visitato la mensa di «Casa accoglienza», la lavanderia e l’ospedale

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foto Andrea Pellegrini

Il 24 dicembre 2021, vigilia di Natale, il sindaco di Torino Stefano Lo Russo ha visitato la Piccola Casa della Divina Provvidenza. Accompagnato dal padre generale, don Carmine Arice, ha sostato davanti all’urna di san Giuseppe Benedetto Cottolengo; ha incontrato gli ospiti delle tre RSA; visitato la mensa di «Casa accoglienza», la lavanderia e l’ospedale. C’erano Madre Elda Pezzuto, superiora delle Suore; il superiore dei Fratelli cottolenghini Giuseppe Visconti; il direttore dell’Ufficio pastorale don Paolo Boggio; il direttore generale dell’ospedale avv. Gian Paolo Zanetta. Il primo cittadino sul libro d’oro ha scritto: «È per me un grande onore e un grande privilegio essere alla Piccola Casa. L’opera del Cottolengo è parte integrante della nostra identità collettiva e tocca nel profondo il cuore e l’anima dei torinesi da secoli. Auspico che i prossimi anni siano propizi per la ripresa di legami e relazioni e che si possa collaborare per le persone più in difficoltà. Un caro augurio a tutti». Padre Arice ha commentato: «Abbiamo apprezzato la sua manifestazione di stima. È stato un incontro sereno e familiare, l’inizio di un cammino che vogliamo percorrere insieme nei prossimi anni».

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Avevano già celebrato il Vespro quel pomeriggio del 2 settembre 1827 quando bussarono alla sacrestia della basilica del Corpus Domini perché occorreva un prete per un’Estrema Unzione. Don Giuseppe Benedetto Cottolengo raggiunge di corsa lo stallaggio dell’albergo «Dogana Vecchia» in Via Corte d’Appello 4 – una lapide ricorda il fatto – e vi trova una giovane donna francese, incinta e morente.

«La grazia è fatta. Benediciamo la Madonna». Amministra i Sacramenti e conforta la famiglia. Torna a casa con il cuore a pezzi. Prega davanti alla Madonna delle Grazie ed esclama: «La grazia è fatta, benedetta la Santa Madonna!». Riceve l’ispirazione di dedicare la vita a «chi non ha persona che pensi a lui». Affitta un alloggio nella casa della «Volta Rossa», a pochi passi dal Corpus Domini e da Palazzo di Città, dando vita a un ricovero che nel 1831, per un’epidemia di colera, trasferisce nella periferica Valdocco. La Piccola Casa della Divina Provvidenza, aperta a malati, orfani e diseredati, in pochi anni cresce prodigiosamente, grazie all’abnegazione delle suore che il Cottolengo fonda e alla generosità dei torinesi. Re Carlo Alberto trasforma la «cittadella della carità» in ente morale e nomina il Cottolengo cavaliere dell’Ordine Mauriziano. Lodi giungono da Papa Gregorio XVI. Il Cottolengo, senza montarsi la testa, sbriga i lavori più umili.

san Giuseppe Benedetto Cottolengo

«Charitas Christi urget nos. Deo gratias. Fare bene fa bene al cuore». Cottolengo nasce a Bra (provincia di Cuneo e diocesi di Torino) il 3 maggio 1786. I quaderni di scuola sono pieni di buoni propositi: «Dio mi vede. Laus Deo. Coll’aiuto di Dio mi farò santo» e con sorprendente arguzia – dote che lo accompagna tutta la vita – «Ripeto sempre che voglio farmi santo, e sono sempre una birba, ma colla grazia di Dio voglio proprio farmi santo». Sacerdote e canonico del Corpus Domini, nonostante i buoni propositi, ha una sofferta esperienza di purificazione spirituale. Gli agi del canonicato non lo soddisfano; le comodità della vita clericale lo turbano; l’abbondanza del clero gli impedisce sostanzialmente di impegnarsi nell’attività pastorale. È ispirato da Dio a iniziare la Piccola Casa per il ricovero di incurabili, disabili e di quanti non trovano soccorso. Il fatto scatenante il 2 settembre 1827 quando ha 41 anni. L’operaio Pietro Ferrario con la moglie francese Jeanne-Marie Gonnet e i tre figlioletti, 7 anni il maggiore, arrivano a Torino diretti a Lione. La donna sta male. All’ospedale «San Giovanni Battista», secondo i regolamenti, non può essere ricoverata perché incinta. Il marito la trasporta all’«Ospizio della maternità di San Michele», che la respinge perché accoglie solo le donne incinte in buone condizioni. In sostanza, non c’è posto per lei in nessun ospedale. Febbricitante e spossata, la portano in una lurida stanza adibita a dormitorio pubblico per barboni e scapestrati. Il locale, voluto dai «Decurioni» per ospitare i poveracci raccolti lungo le strade della capitale, sorge a fianco del Municipio, adiacente allo stallaggio della «Dogana vecchia». La donna si aggrava e chiede un prete. Dal Corpus Domini – edificato in ricordo del «Miracolo eucaristico» del 1453 – accorre il Cottolengo che l’assiste finché spira. I figlioletti piangono, il marito impreca contro Torino dura e inospitale, che non procura un minimo di assistenza. Il più sconvolto è il Cottolengo: fa suonare le campane e agli sbalorditi fedeli spiega che «la grazia» è la sua conversione alla causa degli ultimi.

Le testimonianze di Giovanni Bosco, Antonio Fogazzaro e Guglielmo Massaja «Sia benedetto e ringraziato il Signore – esclama don Bosco – che volle dare un segno di speciale benevolenza alla nostra città di Torino, quando le concedette un sacerdote pio, illuminato e caritatevole come il venerabile Cottolengo: emulando ai nostri giorni gli esempi di San Vincenzo de’ Paoli e ricopiandolo nella carità verso i poveri fratelli, aperse, confidando nella sola Divina Provvidenza, l’ospedale che ne porta il bel nome, opera unica a sollievo della umanità sofferente. Questo buon servo di Dio ci ottenga la grazia di sentire anche noi il dovere di amare e soccorrere i nostri fratelli nei bisogni spirituali e temporali, e che la carità di Gesù ci stimoli a superare tutti gli ostacoli, ad appianare tutte le difficoltà. Fece tanto con quelle sante parole: “Charitas Christi urget nos”». Lo scrittore Antonio Fogazzaro scrive: «Il Cottolengo aveva la sublime follìa della Croce e Dio lo elesse a confondere i prudenti di questo mondo». Il cardinale Guglielmo Massaja, cappuccino piemontese evangelizzatore dell’Etiopia,  vorrebbe «scrivere un libro per esaltare le virtù di questo grande sacerdote e apostolo del nostro secolo che non solo mi fu amico ma con i suoi esempi mi fu maestro. Le opere di sua straordinaria carità erano il soggetto delle mie meditazioni nel lungo apostolato di 33 anni fra i popoli etiopici; e se di quella virtù io potei dare qualche meschina prova si deve agli esempi di tanto maestro».

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