Immagini dal Sinodo sull’Amazzonia che vive l’ultima settimana di lavori: il 26 ottobre 2019 sarà votato il documento finale, dal quale Papa Francesco attingerà per l’esortazione apostolica post-sinodale. Domenica 27 Concelebrazione di chiusura.
«Voglio tornare e dire alle genti dell’Amazzonia che onoriamo le loro vite e che le loro voci sono state ascoltate» confida Mauricio Lopez, segretario della Rete ecclesiale panamazonica (Repam).
In Brasile la Costituzione del 1988 prevedeva che entro il 1993 tutte le terre dei popoli indigeni «dovessero essere demarcate, omologate e registrate. Ne sono state demarcate nemmeno un terzo, e quelle non demarcate sono state invase dai cercatori d’oro, dalle industrie minerarie, del petrolio e del legname». È secca la denuncia di mons. Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho, in Brasile. L’organo che deve vigilare è stato indebolito dal governo di Jair Bolsonaro, il presidente protettore dei predatori. «Ma noi abbiamo i nostri diritti e la nostra lotta da portare avanti. Bisogna scegliere tra due modelli, quello predatorio delle multinazionali e quello socio-ambientale che rispetta le popolazioni indigene e la terra. Nella foresta amazzonica ogni quindici giorni viene scoperta una nuova specie mentre le monoculture distruggono la biodiversità».
Molto forte l’esperienza del salesiano Justino Sarmento Rezende, unico sacerdote indigeno al Sinodo sull’Amazzonia, esperto di spiritualità indigena e pastorale inculturata. Viene dal popolo tuyuca del Brasile. La sua vocazione nasce grazie ai missionari che insegnavano catechismo ai nonni e dal desiderio di trasmettere la fede nella lingua madre. Cinquantenne, sacerdote da 25 anni, ringrazia i missionari che portano il Vangelo e lavorano per la promozione dei popoli e delle culture indigene. In conferenza stampa narra che nel 1976, «io e altri giovani indigeni siamo andati a chiedere come si diventava sacerdoti. Ci hanno risposto: “Essere sacerdoti non è per voi, andate a giocare”. E noi siamo andati a giocare a pallone». Spiega: «La mia vocazione al sacerdozio è nata quando ho visto i missionari che insegnavano il catechismo ai miei nonni, che non capivano la lingua portoghese. Ho pensato che anch’io potevo diventare sacerdote, ma nella mia lingua. La Chiesa ha capito che gli indigeni da evangelizzati possono divenire evangelizzatori».
Padre Justino fa notare che «il celibato non è nato con la persona, è stato stabilito lungo la storia. Nessuno tra noi è preparato a vivere il celibato: è un dono di Dio e una virtù. Quando sono stato ordinato prete mia madre ha pianto perché voleva che mi sposassi e avessi dei figli. E mio nonno mi ha detto: “Essere preti non è per noi, da dove hai preso questa idea?”. Non è stato facile ma per me è stato molto importante vivere il celibato». Parecchi voci al Sinodo rinnovano la proposta dei «viri probati» che, sotto la supervisione di un presbitero responsabile, possano esercitare in comunità lontane e disperse. L’esperienza non contraddice il celibato: «Si tratta di processi lenti». Così si torna a chiedere di studiare il Diaconato alle donne.
Molti padri insistono sulla proposta di un «rito amazzonico» che permetta di sviluppare la ricchezza della Chiesa in Amazzonia. Nell’epoca post-conciliare è stato concesso un rito, limitato alla liturgia, per il cammino neocatecumenale. Nel caso dell’Amazzonia la proposta riguarda «il rito nella sua globalità». Il Vangelo è annuncio di vita nuova: «La Chiesa dal volto amazzonico evangelizza nelle lingue indigene». Collegata a questa la proposta di creare un organismo episcopale permanente per tutelare i diritti calpestati degli indigeni strettamente coordinato con il Consiglio episcopale latinoamericano (Celam), nell’ottica di una pastorale comune più efficace per la formazione degli agenti pastorali e dei sacerdoti amazzonici. Si suggerisce un migliore coordinamento con altri organismi per offrire. Per esempio le università cattoliche possono occuparsi dell’educazione delle popolazioni autoctone. Non si chiede un rito liturgico diverso perché la Chiesa ha ricevuto dal Signore e dagli apostoli l’insegnamento essenziale che si è sviluppato nei vari riti. Si chiede la possibilità di introdurre nella celebrazione simboli e riti locali.«Nella liturgia latina – ricorda il vescovo bergamasco Eugenio Coter, già prete «Fidei donum» in Bolivia – si usa l’incenso come segno della presenza di Dio. Nella cultura di alcuni gruppi indigeni l’incenso esprime il salire al cielo. Viene allora usato nella preghiera dei fedeli per indicare che le preghiere salgono verso il Padre».
Molti chiedono: «La Chiesa assuma la difesa dell’Amazzonia contro i crimini dei quali sono vittime gli indigeni, «gendarmi della foresta»: «Anche dal punto di vista economico, vale la pena tenere la foresta in piedi, passando da una società colonialista a una società pluralista. I rappresentanti dei popoli indigeni vedono nella Chiesa e nel Sinodo un segno di speranza e un momento di luce». Tra le varie sfide anche le migrazioni. Negli ultimi decenni l’Amazzonia, è stata interessata da rilevanti flussi migratori, per esempio da Haiti dopo il terribile terremoto e dal Venezuela. Nella Chiesa amazzonica si intrecciano popoli, culture e impegno missionario: «La Chiesa abbia presto un volto amazzonico con vescovi, sacerdoti e religiosi locali».
Due bulli romani destrorsi hanno rubato da Santa Maria in Traspontina le statuette indigene – da loro ritenute pagane – e le hanno buttate nel Tevere. Poi come tutti i bulli si sono fatti belli su YouTube. Le statuette in legno raffiguravano donne indigene incinte utilizzate durante la cerimonia del 4 ottobre alla presenza di Papa Francesco. Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero della comunicazione commenta l’insulso gesto: «Queste statuette rappresentano la vita, la fertilità, la madre terra. Il gesto contraddice lo spirito di dialogo che dovrebbe animare tutti. E Il fatto si commenta da solo».