Il venerabile Barberis apostolo nell’epidemia spagnola

100 anni fa – Anche il venerabile Adolfo Barberis, segretario del cardinale arcivescovo di Torino Agostino Richelmy, nell’autunno 1919 è contagiato dalla spagnola ed è costretto a 50 giorni di degenza. Don Adolfo si preoccupa delle anime nelle corsie degli ospedali, negli istituti per rachitici e tubercolotici, nei brefotrofi, nelle chiese, nelle case di formazione

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Venerabile Adolfo Barberis

Cento anni fa la spagnola ha mietuto milioni di vittime in Europa e nel mondo. Anche il venerabile Adolfo Barberis, segretario del cardinale arcivescovo di Torino Agostino Richelmy, nell’autunno 1919 è contagiato ed è costretto a 50 giorni di degenza. «Il suo fisico ne è prostrato e anche lo spirito ne risente» scrive madre Silvana Minetti nella «Biografia documentata». Il 1° gennaio 1919 muore a 42 anni il suo padre spirituale, canonico Eugenio Mascarelli, stroncato dalla spagnola. Un mese dopo muore suor Virginia Bergamaschi delle Albertine di Lanzo, addetta alla casa arcivescovile, sua figlia spirituale semplice e ingenua. Il 10 febbraio la spagnola stronca a 28 anni don Giovanni Musso, l’altro segretario. Ne parlerà a lungo celebrandone le doti e la memoria, «tributo a un’amicizia umana e sacerdotale vissuta in maniera limpida e straordinariamente intensa». Don Adolfo si preoccupa delle anime nelle corsie degli ospedali, negli istituti per rachitici e tubercolotici, nei brefotrofi, nelle chiese, nelle case di formazione.

Minetti osserva: «Il lungo esaurimento fisico e l’impossibilità di un recupero adeguato producono un esaurimento anche spirituale. Intanto le sue giornate trascorrono veloci tra Asilo Materno, Augustinianum, Buona Stampa, ministero e predicazione, assistenza all’arcivescovo, la cui salute peggiora». Nell’ottobre 1920 accompagna il cardinale a Roma e incontra Papa Benedetto XV.

MILIONI DI MORTI PER UNA STRANA MALATTIA – Nel febbraio 1918 «Fabra», agenzia di stampa spagnola, trasmette: «Una strana forma di malattia a carattere epidemico è comparsa a Madrid. L’epidemia è di carattere benigno non essendo risultati casi mortali». Così comincia la tragedia della spagnola che – secondo gli storici – «riconfigurò radicalmente la popolazione più di ogni altro evento successivo alla peste nera del 1347-52», narrata da Giovanni Boccaccio ne «Il Decamerone». Contribuisce a segnare le sorti della Grande guerra e la propaganda alleata la sfrutta diffondendo in Germania un volantino: «Recitate il “Padre nostro” perché nel giro di due mesi cadrete in mano nostra; allora mangerete carne e prosciutto e l’influenza vi abbandonerà». In Spagna si parla della malattia perché, non essendo in guerra, ha una censura molto blanda mentre gli altri governi hanno una censura ferrea: per questa banale ragione l’epidemia si chiama «spagnola». Dove arriva, cambia nome: «Soldato di Napoli» in Spagna; «Malattia undici» in Francia; «Febbre delle Fiandre» in Inghilterra; «Malattia bolscevica» in Polonia; «Febbre di Bombay» a Ceylon; «Febbre di Singapore» in Malesia; «Influenza del sumo» in Giappone; «Febbre dei tre giorni» nell’esercito americano.

ORIGINATA FORSE NEGLI STATI UNITI – Da dove venga è difficile dire con certezza. Nel marzo 1918 la sua presenza è attestata a Camp Funston (Kansas) – centro di raccolta per le truppe dello zio Sam in partenza per l’Europa – quando il cuoco militare Albert Gitchell si presenta all’ufficiale medico con «mal di gola, febbre e mal di testa», presto raggiunto da un numero di infettati tale che un hangar è trasformato in infermeria. Al seguito delle truppe, la pandemia passa dal Midwest alla East Coast, ai porti europei e al fronte occidentale, all’Africa settentrionale e al Medio Oriente, all’India e alla Cina, al Pacifico e al Polo Nord, al Giappone e all’Australia, dove sembra svanire. Quella della primavera-estate 1918 è la prima ondata. Negli ultimi mesi del 1918, favorita dai movimenti delle truppe, la pandemia torna più aggressiva e viaggia lungo «le autostrade della fame e della debilitazione» per ricomparire nel 1919. I focolai più virulenti si sviluppano nelle basi militari Usa – a Fort Riley (Texas) colpisce 1.100 soldati – e in Europa dove i militari che si ammalano al fronte sono portati nelle retrovie, così il morbo dilaga anche fra i civili. L’epidemia si manifesta con febbre a 39-40 che vira rapidamente in polmonite, vomito, emorragia polmonare e quasi sempre nella morte: la pelle dei moribondi diventa viola. Un colpo durissimo per scienziati e medici che pure hanno individuato gli agenti di peste, colera, tubercolosi, sifilide, malaria, tifo e difterite. Ma ora sono alle prese con un male misterioso. Nelle influenze i soggetti più a rischio sono i bambini e i vecchi. Invece la spagnola uccide soprattutto giovani uomini di 18-40 anni.

UNA MALATTIA FEROCE QUANTO LA GUERRA – Nel 1918-20 vivevano sulla Terra meno di due miliardi di persone; furono contagiati 200-500 milioni; i morti furono 20-50-100 milioni. L’Italia, già duramente provata dalla guerra, è vessata in tre ondate. La pandemia contagia 4 milioni e mezzo di persone, il 12 per cento della popolazione (36 milioni). I morti sono 375-650 mila. Al fronte nell’ottobre 1918 ci sono 3 mila nuovi casi e 2 mila morti al giorno. Nella I armata si arriva a 32.482 contagi e 2.703 morti. Il contagio non risparmia nessuno: moltissimi i morti nel personale sanitario, in quello dei trasporti, ferrovieri, tranvieri e autisti. Gli ospedali sono trasformati in lazzaretti. A volte medici e infermieri spariscono. Anna Kuliscioff scrive a Filippo Turati: «È un problema trovare medici. Tutti sono sopraffatti dal lavoro e nessuno è curato a dovere». Il morbo colpisce principalmente il Sud ma in tutta Italia non c’è igiene; le case sono senza acqua e senza gabinetti; i paesi sono senza fogne; le famiglie si ammassano e muoiono. «Avanti!» pubblica una vignetta sul vero vincitore della guerra: il bacillo che dilaga. Russia, Portogallo e Italia sono i Paesi europei con il più alto tasso di mortalità. Sulla pandemia fioriscono le interpretazioni più balzane. La «tesi complottistica» suggerisce che sia il frutto di un’arma batteriologica sfuggita di mano agli americani o ai tedeschi. Benito Mussolini dalle colonne del «Popolo d’Italia» invita a impedire «a ogni italiano la sudicia abitudine di stringere la mano e la pandemia scomparirà nel corso di una notte». Molti la vedono come una nuova «piaga d’Egitto; un castigo apocalittico; la fine del mondo; la punizione divina, come la guerra, per i peccati del mondo».

A TORINO 400 MORTI AL GIORNO – Tra settembre 1918 e primi mesi 1919 ci sono 400 morti al giorno. Tra le vittime anche due ragazzini del Seminario di Giaveno. Il 6 ottobre 1918 i quotidiani annunciano i drastici provvedimenti dell’Ufficio d’igiene «per la difesa della popolazione dall’influenza»: chiusura di teatri, caffè concerto e cinematografi; riduzione degli orari dei negozi e delle farmacie; chiusura delle scuole; divieto di funerali affollati; nelle chiese sospensione delle celebrazioni non necessarie. Pier Giorgio Frassati, senza alcun timore, visita i malati nei tuguri, fa ricoverare i più gravi, procura le medicine. Governo e autorità militari impongono una severa censura. Sconvolte anche le sepolture: per evitare assembramenti e «per non demoralizzare la Nazione», sono proibiti: annunci mortuari, fiori, rintocchi funebri delle campane, cortei e carri funebri, soste dei feretri in chiesa, chiusura di un battente degli edifici in segno di lutto. Niente preti, croci, campane ma dritti al cimitero. A Milano le salme accatastate vengono trasportate di notte prima che le proteste riportino i funerali. Due soli i risultati positivi: si incentivano lo sport e le attività all’aria aperta; si contribuisce alla diffusione dell’assistenza sanitaria. Il virus apparso dal nulla, altrettanto misteriosamente scompare.

DON ADOLFO, LA TENEREZZA DI UN PADRE – Incaricato a suo tempo di seguire il clero militarizzato, don Barberis dopo il conflitto deve occuparsi della ricollocazione dei cappellani militari, del reinserimento dei sacerdoti smobilitati, del recupero psicofisico e spirituale di un clero debilitato e sbandato e anche dei loro comportamenti non troppo corretti: un prete ha un figlio illegittimo. Cerca di assicurare un avvenire ai sacerdoti reduci con la «perequazione dei be­nefizi per garantire a tutti i sacerdoti un minimo vitale». Come segretario del cardinale, è in posizione privilegiata per valutare le rovine materiali, morali e spirituali che la Grande Guerra provoca. Continua a occuparsi dei militari ai quali serve ritrovare motivazioni per riprendere una vita normale: tornano spossati dalle trincee e non trovano lavoro. L’arcivescovado è un punto di passaggio per ecclesiastici che, andando a Roma in treno, si fermano a Torino, come i cardinali Léon-Adolphe Amette arcivescovo di Parigi e Desiré-Félicien-François-Joseph Mercier, arcivescovo di Malines-Bruxelles, che lo apprezza e gli lascia una foto con dedica.

ATTENZIONI PARTICOLARI PER I BIMBI E LE RAGAZZE MADRI – È soprattutto ai bambini e alle mamme che riserva le sue cure pastorali e la sua sensibilità. Tra i «devastati» dalla guerra ci sono le famiglie. Fame e denutrizione segnano pesantemente l’infanzia con il rachitismo: tra essi fa il prete, l’operatore sociale e il giocoliere con spettacolini e giochi di prestigio. Si interessa dei bambini nati fuori dal matrimonio, quasi una piaga sociale, figli di ragazze madri di quella classe emarginata e marginale delle serve, delle cameriere, delle donne di servizio, provenienti in prevalenza dalla campagna. Realizza un Asilo Materno a Villa Nasi, in collina: il 15 aprile 1919 celebra la Messa su un altarino da campo con 5 suore e 4 ragazze: «Felicemente riuscita l’inaugurazione della cappella» e battezza il primo bambino nato nella villa. Dal «Diario» traspare la sua tenerezza per i bimbi e le madri: «Luigino esce per la prima volta a prendere il sole; una ricoverata versa in grave pericolo, tutte le altre si riuniscono in preghiera e il giorno successivo l’inferma, dopo aver dato alla luce un prosperissimo bambino, migliora. Ma un bimbo nasce morto e il volto di tutti tradisce tristezza, ansia, paura. La gioia garrula dei bambini ha rallegrato molto le povere ospiti». Con don Giuseppe Giacosa fonda il pensionato universitario che, in onore del cardinale, chiama «Augustinianum», un centinaio di studenti per i quali organizza incontri culturali e crea una Conferenza di San Vincenzo. Nel luglio 1919 accompagna il cardinale al santuario di Sant’Ignazio, in valle di Lanzo, e fa lunghe camminate in montagna. Conclude madre Minetti: «Appena torna a Torino, visita mamme e bambini dell’Asilo, ne registra progressi e ansie, si fa coinvolgere in una esperienza di paternità tenerissima. Le ospiti sanno leggere il cuore di questo prete e gli riservano – scrive – “un’accoglienza, muta di parole, ma cordiale nell’espressione, di persone che attendevano con ansia il mio ritorno. Povere figliole, se a cuore vergine avessero sperimentato meglio il calore di una paternità spirituale”. Come riconoscimento delle sue attività il 31 dicembre 1920 il cardinale lo nomina canonico onorario della Metropolitana».

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