Nella liturgia del Venerdì Santo – unico giorno dell’anno in cui non si celebra la Messa – prima dell’adorazione della Croce, si prega per: la Chiesa, il Papa, tutti gli ordini sacri e i fedeli, i catecumeni, l’unità dei cristiani, gli ebrei, i non cristiani, coloro che non credono in Dio, i governanti, i tribolati.
«Perfidi giudei fratelli maggiori» è il titolo del libro del rabbino capo di Roma Elio Toaff – morto il 15 aprile 2015 – grande alleato degli ultimi Pontefici nell’avvicinamento tra Ebraismo e Cattolicesimo. «Perfidi giudei» erano le parole che la liturgia cattolica del Venerdì Santo affibbiava agli ebrei fino al 1960 – 62 anni fa -; «fratelli maggiori» è l’espressione con cui incominciò a chiamarli Giovanni Paolo II nella visita alla sinagoga di Roma il 13 aprile 1986. Giovanni XXIII ordina di abolire le parole «perfidi giudei e perfidia» dalle preghiere del primo Venerdì Santo che vive da Papa nel 1959 – era stato eletto nell’ottobre 1958 -; parole poi definitivamente cancellate nel 1962. «Io sono Giuseppe, vostro fratello»: con queste parole bibliche, accolse nel 1961 in Vaticano un gruppo di ebrei americani che lo ringraziavano per l’opera a favore del riconoscimento di Israele.
Papa Giovanni modificò le preghiere che offendevano ebrei e musulmani. Osserva il vaticanista Luigi Accattoli: «Fu come chiedere scusa per quelle offese durate secoli». Volle anche che il Concilio Vaticano II si occupasse in modo nuovo dei fratelli separati e degli ebrei e diede al cardinale Agostino Bea autorità e consegne che gli permisero di ottenere – dopo la morte di Roncalli il 3 giugno 1963 – i grandi pronunciamenti conciliari riguardanti questi due temi, compresi il riconoscimento degli errori. Accattoli riporta il racconto del cardinal Bea sulla «piccola, grande decisione di modificare quella preghiera». Bea – che era un grande biblista e che fu maestro di Carlo Maria Martini – racconta: «Quel giorno, durante la liturgia, diede ordine di omettere, nella nota preghiera per gli ebrei, il penoso aggettivo “perfidi”, che oggi suona così male, benché nel latino medievale, al quale risale, significasse semplicemente “non credenti”. Questo gesto commosse l’opinione pubblica ebraica e suscitò molte speranze». Per capire il significato di quella decisione occorre ricordare com’era la vecchia preghiera per gli ebrei ritenuti responsabili della morte di Cristo: «Preghiamo anche per i perfidi giudei. Dio onnipotente ed eterno, che non scacci dalla tua misericordia neanche la perfidia giudaica, ascolta le nostre preci, che ti rivolgiamo per l’accecamento di quel popolo, affinché, riconosciuta la verità della tua croce, che è il Cristo, sia sottratto alle sue tenebre».
La nuova preghiera, introdotta dal messale di Paolo VI, è del tutto diversa: «Preghiamo per gli ebrei. Il Signore Dio nostro, che li scelse primi fra tutti gli uomini ad accogliere la sua parola, li aiuti a progredire sempre nell’amore del suo nome e nella fedeltà alla sua alleanza». L’eliminazione di «perfidi» e di «perfidia» – che il dizionario Garzanti definisce «tendenza a comportarsi con subdola malvagità» – non fu l’unica innovazione liturgica di Papa Giovanni in favore degli ebrei. L’altra espressione ingiuriosa, era nel Battesimo di uno che proveniva dall’Ebraismo: «Abbia in orrore la perfidia giudaica»: fu soppressa nel 1960. Già Pio XII nutriva qualche dubbio su queste espressioni, ma non se ne fece nulla. Un rescritto della Congregazione dei riti (10 giugno 1948) spiegò che la parola latina «perfidia, mancanza di fede» si riferiva all’Ebraismo che non crede in Cristo figlio di Dio.
La modifica della preghiera attira l’attenzione dell’ebreo francese Jules Isaac, storico di professione, che aveva perduto nei campi di concentramento la moglie e la figlia. Chiede di parlare al Papa e viene ricevuto il 13 giugno 1960: gli consegna un promemoria sull’opportunità di una «revisione dell’insegnamento cristiano riguardante gli ebrei» e suggerisce la creazione di «una sottocommissione incaricata di studiare il problema». Roncalli gli risponde che ci ha già pensato. L’incontro gli fa nascere l’idea che il Concilio Vaticano II – annunciato da Giovanni XXIII ai cardinali, increduli e costernati, il 25 gennaio 1959 nella basilica di San Paolo fuori le mura – dovrà occuparsi della questione. Roncalli affida la materia a Bea. Presentando in Concilio il 19 novembre 1963 il testo sugli ebrei, inserito nello schema sull’ecumenismo, Bea invoca l’autorità di Papa Giovanni morto cinque mesi prima: «Nel dicembre 1962 esposi per iscritto la questione “De judaeis” al Sommo Pontefice. Pochi giorni dopo mi fece sapere la sua piena approvazione».
La revisione storico-liturgica sugli ebrei interessa anche i «fratelli separati». Papa Giovanni li invita a inviare «uditori» al Concilio – anche gli ortodossi russi, non proprio benevoli con Roma, ne mandano due – e nel 1960 crea il Segretariato per l’unione dei cristiani, che affida a Bea. La spina dello scontro con i «fratelli separati» in Angerlo Giuseppe Roncalli è di antica data, da quando fu in Oriente rappresentante del Papa. Nel 1926, quando a 45 anni era a Sofia come visitatore apostolico, scrisse a un giovane ortodosso: «I cattolici e gli ortodossi non sono dei nemici, ma dei fratelli. Abbiamo la stessa fede, partecipiamo agli stessi Sacramenti, soprattutto alla medesima Eucarestia. Ci separano alcuni tesi intorno alla costituzione divina della Chiesa di Gesù Cristo. Coloro che furono causa di questi malintesi sono morti da secoli. Lasciamo le antiche contese e, ciascuno nel suo campo, lavoriamo a rendere buoni i nostri fratelli, offrendo loro i nostri buoni esempi. Più tardi, benché partiti da vie diverse, ci si incontrerà nella unione delle Chiese per formare tutte insieme la vera e unica Chiesa di Nostro Signore Gesù Cristo». L’espressione «lasciamo le antiche contese» ritornerà continuamente nei testi del Concilio e dei sei Papi successivi. Roncalli fu un ottimo profeta.
Pier giuseppe Accornero