«Se i triangoli inventassero un dio, lo farebbero con tre lati». Scrive così Montesquieu nel suo romanzo epistolare «Lettere persiane», nel quale analizza la società francese del suo tempo attraverso gli occhi di due persiani in viaggio per la Francia. Le loro lettere, inviate agli amici in Oriente, offrono un punto di vista diverso sui valori culturali dell’Occidente, evidenziandone le contraddizioni. La loro analisi li porta a formulare un’osservazione assai acuta: «Mi pare», scrive uno dei «persiani» di Montesquieu, «che noi giudichiamo le cose sempre in base a un riferimento segreto a noi stessi». È quello che noi oggi definiamo «precomprensione»: la realtà è sempre filtrata dalla cultura che appartiene all’identità di ciascuno, costituendo quel «pre» con cui accostiamo ogni cosa. Prenderne consapevolezza ci avverte che il nostro sguardo è un punto di vista e non il punto di vista. Evita, insomma, il pregiudizio.
Se è vero, infatti, che il confine tra la precomprensione e il pregiudizio è assai sottile, è altrettanto vero, però, che i due termini non possono essere sovrapposti. La precomprensione fa riferimento al retroterra culturale che ciascuno di noi porta inevitabilmente con sé nell’incontro con l’altro. Essendo la cultura non solo un rivestimento, ma un elemento costitutivo della propria identità, è evidente che ogni persona incontrerà l’altro con il filtro degli usi, dei costumi e delle tradizioni del proprio Paese d’origine e della propria famiglia.
Il pregiudizio cristallizza acriticamente questa precomprensione, facendola diventare un assoluto. Per gli studiosi della psicologia sociale si tratta di un giudizio emesso a prescindere da una conoscenza reale e puntuale dell’oggetto in questione, sia esso cosa, persona o gruppo. Gordon Allport, uno degli psicologi sociali che più si è occupato di questo tema, nella sua opera, «The Nature of Prejudice», definisce il pregiudizio come «un’antipatia basata su una generalizzazione irreversibile e in mala fede» che «può essere solo intimamente avvertita o anche dichiarata». In questo senso, mentre la precomprensione esprime comunque una verità, sebbene colta in maniera parziale secondo lo sguardo del proprio contesto di appartenenza, il pregiudizio è un’opinione priva di giustificazioni razionali e perciò pre-coce e pre-concetta: produce una valutazione talmente affrettata e avventata da risultare sbagliata. A rendere ancora più intensa la forza del pregiudizio è la sua componente emozionale (simpatia o antipatia verso altri individui e/o gruppi) che si aggiunge a quella cognitiva.
Dietro questo irrigidimento cognitivo ed emotivo si nasconde spesso la paura immotivata del prossimo o anche più semplicemente della novità, cosicché il pregiudizio diventa una sorta di difesa aprioristica e preventiva di una realtà non necessariamente avversa, ma comunque definita come «nemica». Una percezione distorta che conduce a costruire barriere interiori spesso assai più forti di quelle fisiche. Un paradosso se pensiamo che viviamo nell’epoca dei ‘non confini’: dei confini annullati dai mezzi di trasporto e dalla rete, da quelli sociali abbattuti, almeno nel dichiarato, in nome dell’uguaglianza tra gli uomini; ma quel che è peggio, quest’opinione preconcetta ha la capacità di modellare i nostri comportamenti. Ha la capacità di compromettere ogni possibile esperienza d’incontro, di ostacolare, se non di impedire la conoscenza del reale… fino a generare atteggiamenti discriminatori ingiusti e violenti. In questo modo il pregiudizio ci rende prigionieri dei nostri stessi pensieri distorti.
Di questa prigionia ne è stato un esempio eloquente, quanto drammatico, il «Mein Kampf» di Hitler. Vero prototipo della costruzione di assunti pregiudiziali nei confronti delle minoranze o comunque dei ‘diversi’, ha istituzionalizzato la creazione del «nemico esterno». Il pregiudizio elevato a pensiero di massa, a opinione pubblica. E oggi? È ricorrente assistere in televisione o leggere sui giornali lo scambio di frasi ingiuriose, di aggressioni verbali tra i rappresentanti di fazioni contrapposte. Veniamo spesso a conoscenza di violenze gratuite, verbali e non, compiute ai danni di persone indifese, magari appartenenti a gruppi stigmatizzati, come gli immigrati, le persone di colore, i senzatetto, gli anziani, gli omosessuali, i disabili; contemporaneamente siamo preoccupati per la minaccia di attentati improvvisi, per il rapido cambiamento degli scenari internazionali, finendo, un po’ tutti, per costruirci pregiudizi dettati più da fattori emotivi che razionali, nei quali ci arrocchiamo. Rischiamo di vivere prigionieri di quello che gli esperti del tema definiscono «pregiudizio implicito o inconscio», che ha conseguenze talvolta ancora più pericolose di quello espresso in maniera manifesta e plateale proprio in quanto non riconosciuto.
Lo smascheramento dei pregiudizi è stato una delle maggiori preoccupazioni dell’Illuminismo. Ne è un esempio letterario significativo il «Gulliver» di Jonathan Swift scritto agli inizi del Settecento. Egli sottopone il suo protagonista a diverse dimensioni prospettiche per scoprire che, tra i piccoli abitanti di Lilliput, Gulliver appare come un gigante, mentre tra i giganti di Brobdingnag è un piccolo nano. Quando Gulliver terminerà il suo viaggio, Swift gli metterà in bocca le parole che spiegano ciò che gli è accaduto: «È un esempio della potenza dell’abitudine e del pregiudizio».
Denunciare il pregiudizio non è tuttavia ancora sufficiente per eliminarlo. Lo dimostrano gli studi di Brown e Minard sugli scarsi risultati ottenuti dalla formazione scolastica. La spiegazione di questo insuccesso è semplice: la scuola è solo una parte dell’esperienza dei ragazzi. Se usciti da quel contesto, ritornano in un ambiente contrassegnato da pregiudizi e discriminazioni, gli atteggiamenti tolleranti appresi tra le mura scolastiche vengono facilmente abbandonati.
Quasi sessanta anni fa Allport, nel suo studio sopracitato, muovendo dalla convinzione che il pregiudizio e la discriminazione nascano dalla mancanza di conoscenza tra le persone e tra i membri di gruppi diversi, formulò l’«ipotesi del contatto». Secondo quest’autore è possibile ridurre la forza del pregiudizio e contrastarne gli effetti negativi attraverso l’incontro (contatto). In altre parole, se alle persone è data l’opportunità di incontrare individui appartenenti a gruppi diversi dal proprio, scopriranno che molti pregiudizi e stereotipi sono infondati. Tuttavia un tale risultato non è garantito da un «contatto» qualsiasi. Gli studi di psicologia sociale hanno verificato che il pregiudizio è più alto negli spazi in cui è maggiore la presenza d’immigrati.
Secondo Allport per ottenere effetti positivi dall’incontro tra gruppi e persone diverse è necessario che siano soddisfatte almeno quattro condizioni: Innanzitutto che l’incontro abbia il «sostegno istituzionale». Le legislazioni che offrono norme favorevoli al «contatto» tra i gruppi e condannano i comportamenti discriminatori favoriscono l’interiorizzazione di atteggiamenti meno pregiudiziali. Inoltre contribuiscono a creare un nuovo clima sociale dal quale possono emergere ulteriori norme ispirate alla pacifica convivenza. Insomma, un vero e proprio circolo virtuoso.
La seconda condizione è che i soggetti s’incontrino su un «terreno paritetico» (compagni di classe, colleghi di lavoro, genitori…). Di fronte all’esperienza quotidiana delle pari competenze nello svolgimento dei compiti scolastici o professionali o genitoriali risulterà sempre più difficile continuare a sostenere posizioni pregiudiziali. L’incontro deve inoltre avere «durata, frequenza, e profondità» sufficienti a permettere lo sviluppo di relazioni significative e durevoli. Infine la relazione richiede la «cooperazione» quale condizione per poter raggiungere degli scopi comuni. Quanto più l’esito del lavoro cooperativo sarà positivo, tanto più produrrà una modificazione significativa dell’atteggiamento verso il diverso.
L’obiettivo ultimo del «progetto del contatto» è quello di rendere i confini tra gli individui maggiormente permeabili, fino alla dissoluzione delle categorie etniche, economiche, di genere che dividono e creano discriminazioni. Un brano del Vangelo, suggerito dalla psicologa Zanetti, spiega bene cosa s’intenda per disgregazione delle categorie pregiudiziali: «Gesù […] trovò Filippo e gli disse: ‘Seguimi!’. Filippo era di Betsàida, la città di Andrea e di Pietro. Filippo trovò Natanaele e gli disse: ‘Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè, nella Legge, e i Profeti: Gesù, il figlio di Giuseppe, di Nàzaret’. Natanaele gli disse: ‘Da Nàzaret può venire qualcosa di buono?’. Filippo gli rispose: ‘Vieni e vedi’» (Gv 1, 43-46). Natanaele ha qui adottato come criterio di riferimento del suo giudizio su Gesù la categoria geografica di provenienza anziché quella del reale valore della persona. Filippo, invece, che già aveva avuto modo di incontrare Gesù, ne ha un’altra valutazione e in forza di questa lo incoraggia a superare il pregiudizio: «Vieni e vedi».
Questo processo di «de-categorizzazione» richiede un ulteriore passaggio: quello che muove dalla de-categorizzazione alla «ri-categorizzazione». L’inserimento, cioè, in un nuovo gruppo di appartenenza. Anche qui un esempio evangelico, ancora proposto dalla Zanetti, chiarisce ciò cui ci stiamo riferendo: Gesù «vide Levi, il figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: ‘Seguimi’. Ed egli si alzò e lo seguì. Mentre stava a tavola in casa di lui, anche molti pubblicani e peccatori erano a tavola con Gesù e i suoi discepoli […]. Allora gli scribi dei farisei, vedendolo mangiare con i peccatori e i pubblicani, dicevano ai suoi discepoli: ‘Perché mangia e beve insieme ai pubblicani e ai peccatori?’. Udito questo, Gesù disse loro: ‘Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori’» (Mc 2, 13-17). Gesù libera Levi dalla categoria allora disprezzata degli esattori delle tasse, asserviti al potere romano, e lo colloca in un nuovo ordine, quello dei peccatori. Una categoria che, oltre ad accomunare tutti gli uomini, offre una «ridefinizione positiva» della persona (almeno agli occhi di Dio): il peccatore, a differenza di chi si ritiene giusto, può essere fatto oggetto di cura.
Abbiamo da poco celebrato il Natale che ci ha fatto incontrare Erode, l’uomo del pregiudizio, colui che non sa fidarsi di nessuno, per il quale ogni novità è una minaccia. Figuriamoci quale turbamento di fronte alla dichiarazione della nascita del «re dei Giudei» (Mt 2, 2). Immediatamente, «riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo» (Mt 2, 4). Dall’altra parte i magi, uomini affascinati dalla ricerca. Stranieri senza pregiudizi che hanno lasciato la loro terra per incontrare il bambino preannunciato dal cielo. Se il voler essere informato di Erode è pregiudizio omicida, la domanda dei Magi, «dov’è colui che è nato, il re dei Giudei?», è desiderio di incontro.
Se i triangoli inventassero un dio, lo farebbero con tre lati; se Erode fosse richiesto di inventarsi un dio direbbe che non ne vede la necessità dal momento che c’è già lui; se i Magi dovessero immaginarsi un dio non dimenticherebbero le parole pronunciate dal Signore per bocca del profeta Isaia: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55, 8).