
«Sono appena rientrato ad Addis Abeba e nel mio viaggio dalla regione del Wollayta che è a 300 km a sud della capitale dell’Etiopia, mi sono imbattuto in un drammatico susseguirsi di funerali. In 37 anni di impegno nel Paese non avevo mai assistito ad una cosa del genere: in ogni villaggio si piangevano morti, non si può non intervenire…».
È lunedì 6 luglio e a parlare via telefono satellitare è Roberto Rabattoni, presidente e fondatore del Centro Aiuti per l’Etiopia, organizzazione di volontariato che ha sede a Verbania e che ha come obiettivo la lotta alla povertà nel Paese africano attraverso diverse azioni in loco (negli anni ha realizzato 29 scuole, 3 centri di accoglienza per minori disabili e malati di Hiv, 2 ospedali, 16 pozzi realizzati e ad oggi sono oltre 40mila i bambini sostenuti mediante l’adozione a distanza in tutta l’Etiopia). In Italia l’associazione opera per la sensibilizzazione sulla realtà del Paese raccogliendo fondi e informando attraverso il sito www.centroaiutietiopia.it.

Le parole, l’appello di Rabattoni a contribuire per l’Etiopia, ci arrivano mediante comunicazione telefonica breve e difficoltosa, condizionata dall’impossibilità di usare Internet: «Da alcuni giorni», prosegue il presidente dell’Associazione, «l’accesso alla Rete è stato tolto in seguito a disordini che si sono generati dopo l’uccisione ad Addis Abeba a colpi di arma da fuoco del cantante-attivista locale del gruppo etnico degli Oromo, Hachalu Hundessa».
Disordini che si innestano su una situazione di tensione politica aggravatasi con la decisione del governo di rimandare, a causa della pandemia, le elezioni parlamentari che erano previste in agosto e che ha portato il primo ministro, Abiy Ahmed, in un messaggio alla Nazione trasmesso il 3 luglio attraverso radio e tv del Paese, a denunciare il rischio di guerra civile. I disordini infatti hanno già causato un centinaio di morti e stanno facendo ancora più sprofondare nel caos un Paese che, come racconta Rabattoni, in questo momento è comunque «allo stremo per la fame», aggravata dalla diffusione del Covid-19.
«Mai vista una situazione così disperata», prosegue Rabattoni, «il Governo etiope ha reso pubblico un dato allarmante: sono 30 milioni le persone a rischio morte per denutrizione, circa un terzo della popolazione del Paese. Con questi dati il 2020 risulta peggiore rispetto al 1984, che aveva portato a 10 milioni di morti in due mesi per fame. Quotidianamente riceviamo tantissime richieste di aiuto ed abbiamo distribuito nei primi giorni di giugno oltre 50 mila quintali di farina bianca per il pane in alcuni villaggi della regione del Wollayta, ma tantissimi sono ancora i centri da approvvigionare, per cercare di rispondere almeno in parte al grido disperato di questa gente e per questo facciamo un accorato appello per raccogliere fondi». «Ai tanti che ci hanno chiesto aiuto», aggiunge, «se rispondevamo che eravamo già impegnati in una distribuzione, loro replicavano: ‘Ma noi abbiamo fame e stiamo morendo di fame…’. Continuavano a chiedere e a dirci: ‘Noi abbiamo fame adesso e stiamo morendo’».
Ma quali sono le cause di questa carestia? «Anzitutto il cambiamento climatico, che ha come conseguenza scarsità e irregolarità delle piogge; ha compromesso i raccolti e procurato la moria del bestiame. In aggiunta quest’anno anche gli sciami di locuste hanno rovinato tutta l’agricoltura, principale fonte di reddito e di cibo per la popolazione». Le famiglie, che vivono di quanto producono, non hanno più niente e i prezzi sono lievitati, divenendo insostenibili: così l’associazione cerca di contrattare l’acquisto di mais e farina per il pane dai produttori per evitare rincari eccessivi, ma non è sufficiente. «Ci sono tantissimi bambini abbandonati nelle campagne, tutti i giorni, per disperazione da madri che non hanno il latte per alimentarli, e che se non vengono trovati da qualcuno possono essere mangiati dagli animali come cani o iene. E spesso nelle statistiche non rientrano neanche i numerosi bambini di strada che vivono di elemosina e di furti e che muoiono senza che nessuno se ne accorga…».
Il Centro aiuti per l’Etiopia fa appello per una situazione che il Covid ha aggravato e che richiede un ulteriore sostegno economico: «Il lockdown e il distanziamento sociale in Etiopia sono molto complicati da praticare. I nuclei familiari non hanno scorte di cibo a casa e la maggioranza delle famiglie vive del guadagno giornaliero che deriva dai lavori saltuari. Alla sera, dopo il lavoro, quanto si è guadagnato durante il giorno – 80/100 birr che equivalgono a quasi 3 euro – viene speso nei mercati notturni, che sono di solito situati su dei prati vicino ai centri abitati, per acquistare il cibo da consumare il giorno stesso a tarda sera, ed è l’unico pasto della giornata».
Nella località di Boditi, nel Sud dell’Etiopia, che annovera circa 6mila abitanti, sono stati individuati mille casi di affetti da coronavirus. «Chi viene sorpreso per strada senza la mascherina viene punito con l’arresto. E tale divieto impedisce ai capifamiglia di poter andare al lavorare per guadagnare i soldi per sfamare i propri figli. Mascherine e sapone scarseggiano, qui manca tutto».
Casi di Covid si stanno registrando anche tra i rifugiati, suscitando il timore di una rapida diffusione del contagio in un gruppo già considerato ad alto rischio, basti pensare che nel campo profughi di Adi-Harush, che conta quasi 34mila residenti fuggiti dall’Eritrea, e dove sono già sono stati riscontrati dei positivi, il distanziamento sociale è impensabile.
Il Centro aiuti per l’Etiopia ha persino donato sapone e disinfettante al Governo della Regione del Wollayta che non ha i soldi per acquistarlo, mentre i volontari cercano di far capire l’importanza di lavarsi le mani per non ammalarsi, perché il Governo non ha ospedali attrezzati e medicinali per curare le persone. «Una situazione drammatica per questo», conclude Rabattoni, «ma purtroppo resta ancora la fame il problema maggiore, che miete vittime ad ogni età».