Iraq, con il Papa sui sentieri della pace

Si può sconfiggere la guerra – Lo straordinario viaggio di Francesco sulle macerie dell’Iraq. L’appello davanti alle telecamere di tutto il mondo per la fraternità, che supera le differenze. L’abbraccio ai musulmani

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«Francesco e la logica del Vangelo. La forza debole che fa la storia», Andrea Riccardi, «Corriere della Sera». «Il Papa in Iraq sconfigge i potenti della terra», Alberto Negri, «il manifesto». Due titoli di giornali riassumono bene il viaggio in Iraq, dal 5 all’8 marzo, il più difficile del papato di Francesco: il 13 marzo inizia l’ottavo anno, dopo l’elezione del 13 marzo 2013.

In missione di pace

Nella terra di Abramo stringe un patto con l’ayatollah Al-Sistani, con gli iracheni e con il mondo: basta guerre, basta armi, basta intolleranza. In quattro giorni fa più di chiunque altro in un secolo di guerre e massacri, falsi accordi e pacificazioni effimere. Osserva l’editorialista Alberto Negri di solito non tenero con la Chiesa e il papato: «È un uomo testardo che ha coraggio quando lo consigliavano di non andare in Iraq; ha sfidato i consigli degli americani e dei venditori di morte occidentali. Nella biblica piana di Ur, oltre a condannare il terrorismo in nome della religione, si è scagliato contro ogni forma di oppressione e prevaricazione. Rispetto ai potenti della terra, porta a casa un risultato straordinario che non si potevano immaginare: hanno arsenali pieni ma poche idee che funzionano per una pace autentica. Il peso specifico di questo viaggio lo soppeseremo nell’onda lunga della storia ma già nell’immediato ha instaurato un clima mai visto in questo Paese che ha vissuto 40 anni di guerre, morte, sopraffazione».

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Prega fra droni e cecchini

«Terrorismo e morte non hanno mai l’ultima parola, quella spetta a Dio». Dove fu proclamato il Califfato, Papa Francesco dice con pacatezza: «Mai è lecito uccidere in nome di Dio. Tacciano le armi! Se ne limiti la distribuzione, qui e ovunque! Cessino gli interessi di parte! Si dia voce ai costruttori, agli artigiani della pace! Ai piccoli, ai poveri, alla gente semplice, che vuole vivere, lavorare e pregare in pace. Basta violenze, basta estremismi, fazioni, intolleranze». Attraversa la navata della Cattedrale siro-cattolica Nostra Signora della salvezza – ricostruita dopo la strage del 31 ottobre 2010, quando cinque terroristi massacrarono 48 cristiani inermi – che richiama la barca che portava Gesù e i discepoli nella tempesta. Quella stessa barca sulla quale il 27 marzo 2020, in piena pandemia, invitava a salire «perché siamo chiamati a remare insieme, perché siamo tutti fragili e disorientati». Alla Messa allo stadio Franso Hariri di Erbil, constata che la Chiesa in Iraq è viva; esorta a rifuggire dalla tentazione della vendetta con la forza del perdono.

Francesco e al-Sistani si guardano negli occhi

A Najaf il colloquio privato di 45 minuti con il grande ayatollah Sayyid Ali Al-Husayni al-Sistani, capo della comunità sciita irachena, in una stanza spoglia, con due divanetti, un tavolino, una scatola di fazzoletti. Nessuno dei capi occidentali lo ha mai incontrato in questi decenni. Qui al-Sistani nel 2014 lanciò l’appello agli iracheni per ribellarsi dal Califfato. Il grande ayatollah rompe la tradizione: si alza per salutare il Papa. E dice: «I cristiani devono poter vivere in sicurezza e libertà». Esalta l’importanza della collaborazione e dell’amicizia fra le comunità religiose. Afferma che le autorità religiose devono proteggere i cristiani che dovrebbero godere degli stessi diritti degli altri iracheni. Il Papa ringrazia al-Sistani perché «assieme alla comunità sciita, di fronte alla violenza e alle grandi difficoltà ha levato la sua voce in difesa dei più deboli e perseguitati, affermando la sacralità della vita umana e l’importanza dell’unità del popolo iracheno». Un passo importante per il dialogo e la pacificazione fra le componenti: sciiti (60 per cento), sunniti (35 per cento), cristiani, yazidi, arabi e curdi.

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La benedizione del Patriarca Abramo

La piana di Ur dei Caldei, sede dell’incontro interreligioso, «ci riporta alle origini, alle sorgenti dell’opera di Dio, alla nascita delle nostre religioni. Qui, dove visse Abramo nostro padre, ci sembra di tornare a casa. Qui egli sentì la chiamata di Dio, da qui partì per un viaggio che avrebbe cambiato la storia. Noi siamo il frutto di quella chiamata e di quel viaggio. Affermiamo che Dio è misericordioso e che l’offesa più blasfema è profanare il suo nome odiando il fratello. Ostilità, estremismo e violenza non nascono da un animo religioso: sono tradimenti della religione. Noi credenti non possiamo tacere quando il terrorismo abusa della religione. Sta a noi dissolvere con chiarezza i fraintendimenti».

Francesco ricorda la comunità religiosa yazida, «che ha pianto la morte di molti uomini e ha visto migliaia di donne, ragazze e bambini rapiti, venduti come schiavi e sottoposti a violenze fisiche e a conversioni forzate». Invoca Abramo: «Ci aiuti a rendere i luoghi sacri di ciascuno oasi di pace e d’incontro per tutti. Dio ama ogni popolo, ogni sua figlia e ogni suo figlio! Anche noi siamo chiamati a lasciare quei legami e attaccamenti che, chiudendoci nei nostri gruppi, ci impediscono di accogliere l’amore sconfinato di Dio».

Una preghiera in arabo si innalza a «Dio onnipotente: ti ringraziamo per il dono di un padre comune nella fede, per l’esempio di uomo di fede che ti ha obbedito fino in fondo; ti ringraziamo perché, benedicendo il nostro padre Abramo, hai fatto di lui una benedizione per tutti i popoli».

Visita a una comunità ferita

La Cattedrale Immacolata Concezione di Qaraqosh nell’agosto 2014 venne vandalizzata, profanata e bruciata dalle milizie islamiche. È tornata luogo sacro con un altare improvvisato e una croce di legno sul tetto. Francesco visita una comunità ferita e ascolta le testimonianze di Doha Sabah Abdallah, che ha perso un figlio ucciso dall’Isis e del sacerdote Ammar Yako.

«Con grande tristezza ci guardiamo attorno e vediamo i segni del potere distruttivo della violenza, dell’odio e della guerra. Questo incontro dimostra che il terrorismo e la morte non hanno l’ultima parola. L’ultima parola appartiene a Dio e al suo Figlio, vincitore del peccato e della morte. Adesso è il momento di ricostruire e ricominciare, affidandosi alla grazia di Dio. Non siete soli! La Chiesa vi è vicina, con la preghiera e la carità. In questa regione tanti vi hanno aperto le porte nel momento del bisogno. Il perdono è necessario per rimanere nell’amore, per rimanere cristiani. La strada per una piena guarigione potrebbe essere ancora lunga, ma non scoraggiatevi».

La fraternità è più forte delle macerie

A Mosul la preghiera di suffragio per le vittime della guerra. Devastata dalla furia degli islamisti – già capitale del Califfato – ha cominciato la ricostruzione. Distrutte le chiese siro-cattolica, armeno-ortodossa, siro-ortodossa e caldea, da antica città sulla riva del fiume Tigri di fronte ai resti di Ninive, da crocevia di etnie e religioni, si è trasformata in luogo di terrore. Mezzo milione di persone – oltre 120.000 cristiani – fuggirono e la località fu sottoposta a una sistematica devastazione. Bergoglio eleva la voce in preghiera «per tutte le vittime della guerra e dei conflitti armati. Com’è crudele che questo Paese, culla di civiltà, sia stato colpito da una tempesta così disumana, con antichi luoghi di culto distrutti e migliaia di persone – musulmani, cristiani, yazidi che sono stati annientati, e altri – sfollati con la forza o uccisi». Najeeb Michaeel Moussa, Arcivescovo caldeo di Mosul, dice «no al fondamentalismo, al settarismo, alla corruzione. Noi, figli di chiese, moschee e mausolei siamo fratelli nell’umanità, un solo cuore e una sola volontà, mano nella mano esprimiamo la nostra unità nella diversità».

Il coraggio delle donne irachene

Prima di rientrare l’8 marzo, festa della donna, elogia il coraggio di Doha, che ha visto uccidere il figlio di 4 anni dall’Isis nel giardino di casa; di Rafah rimasta sola a Bassora: figli, fratelli e parenti sono andati via in cerca di fortuna; di Nadia Mourad, giovane curda di etnia yazida prigioniera e vittima delle violenze, Nobel per la Pace 2018: chiede che le cose cambino e plaude alla visita di Francesco. Sono le voci delle donne irachene. Fino agli anni Ottanta l’universo femminile è progredito con la scolarizzazione e il diritto di voto. Ma poi il fondamentalismo islamico; la subalternità ai maschi; le sofferenze delle guerre e del terrorismo. Il Papa legge nei loro occhi e cuori: «Vorrei dire grazie di cuore a tutte le madri e le donne coraggiose che continuano a donare la vita».

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