La bufera Ilva nuova tegola sul Piemonte, mille esuberi

Racconigi – Duecento posti di lavoro appesi allo stesso destino dell’acciaieria di Taranto, altri 800 nella fabbrica di Novi Ligure. La multinazionale: “in Italia non ci sono più le condizioni per mandare avanti il piano industriale”

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Il terremoto all’Ilva di Taranto fa tremare una fetta importante dell’apparato industriale dell’intero Paese. Ripercussioni gravi potrebbero esserci anche per la manifattura piemontese. In cima alla lista delle aziende che potrebbero chiudere ci sono l’Ilva di Novi Ligure (800 lavoratori) e Racconigi (200). Per questo l’8 novembre nell’impianto di Racconigi (nella foto)  ha scioperato per 24 ore la totalità dei lavoratori. Il 12 novembre è toccato a Novi Ligure. Non a caso il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, il 7 novembre, dopo aver appreso della lettera di recesso di ArcelorMittal, ha parlato di «allarme rosso» e di una crisi che «riguarda l’intero Paese». La multinazionale dell’acciaio indo-lussembrughese ormai sembra sempre più intenzionata ad abbandonare al proprio destino l’acciaieria di Taranto e gli impianti di Genova, Novi Ligure, Milano, Racconigi, Paderno Dugnano, Salerno, Legnano e Marghera. La più grande multinazionale dell’acciaio, 76 miliardi di fatturato annui e 209 mila dipendenti sparsi per il mondo, sostiene che in Italia non ci sono più le condizioni per implementare il piano industriale da 4 miliardi di euro presentato nel novembre del 2018 e da realizzare entro il 2023. Secondo ArcelorMittal le ragioni dell’abbandono sarebbero le incertezze normative e l’invadenza della magistratura, mentre per i sindacati si tratta solo di alibi per chi vuole licenziare 5 mila dipendenti su oltre 10 mila lavoratori.

A distanza di un anno, quella che sembrava essere la soluzione della più grande crisi industriale italiana dal dopoguerra ad oggi, torna ad essere il metro con cui si misura la decadente potenza economica di un Paese. «Non esiste Paese avanzato» taglia corto il torinese Alberto Dal Poz, presidente nazionale di Federmeccanica «che non abbia al proprio interno un apparto produttivo siderurgico in grado di garantire al settore metalmeccanico gli approvvigionamenti necessari di materie prime. Vorrei ricordare che l’Italia è ancora la seconda manifattura dell’Unione Europea e che la metalmeccanica rappresenta il 52% dell’export nazionale e vale l’8% del pil del Paese. La produzione interna di acciaio assicura vantaggi competitivi commerciali e logistici di primaria importanza. Esporre, ad esempio, l’automotive nazionale, la cantieristica navale e l’aerospazio alla volatilità del mercato internazionale oppure alla guerra dei dazi tra Cina e Usa significa infliggere un duro colpo all’economia del Paese. Qualunque riflessione deve partire da qui».

Per capire meglio la portata del problema basti pensare che l’Italia è il decimo produttore mondiale di acciaio con circa 24 milioni di tonnellate (1,4% della produzione mondiale) e che quasi il 25% viene lavorato a Taranto. «Da Taranto partono le grandi bobine di acciaio» spiega Salvatore Pafundi, segretario generale della Fim Cisl di Asti e Alessandria «che da acciaio grezzo diventano lastre destinate alla produzione di auto e della componentistica. Nel pieno della capacità produttiva i circa 700 lavoratori della fabbrica possono produrre fino 1,7 milioni di tonnellate di acciaio. Ora i volumi si sono attestati a 800 mila tonnellate, ma l’azienda rimane pur sempre uno dei principali attori del settore metallurgico piemontese. È chiaro che quello che succede a Taranto non ci lascia indifferenti. Anzi. L’80% della nostra produzione dipende da Taranto. Se chiude Taranto il nostro destino è segnato. Li la situazione è complessa, salute e lavoro si intrecciano a sicurezza e occupazione. Ma anche qui ci sono delle criticità. In un anno la nuova proprietà non ha fatto gli investimenti promessi. Impianti e macchinari mostrano sempre più i segni del tempo, poco o nulla è stato fatto in termini di sicurezza sul lavoro, mentre la produzione si spinge sempre verso la saturazione dell’impianto».

Una situazione non diversa dall’impianto di Racconigi. Qui poco meno di 200 dipendenti non lavorano lastre per l’indotto auto, ma profili cilindrici. Tubi utilizzati nei campi più svariati: edilizia, impiantistica e cantieristica. Il copione è simile a Novi Ligure: la quasi totalità della materia prima arriva da Taranto e qui viene trasformata in semilavorato da destinare ad altri livelli della filiera dell’acciaio. Anche qui la produzione integrata e verticale con AcerolMittal rappresenta un sostanziale legame di monocommittenza. Anche qui se Taranto chiude si va tutti a casa. «È un rischio imminente» spiega Vittorio De Martino, segretario regionale della Fiom «che va evitato ad ogni costo. L’autorevolezza internazionale del nostro Paese passa anche da questa vertenza. Aver giocato con lo scudo penale è un danno. Contemperare diritto alla salute e diritto al lavoro è una necessità. Prendersi del tempo e lasciare che il piano industriale venga realizzato secondo le condizioni di un anno fa è obbligatorio. È ora che la strategia industriale dell’Italia trovi dei punti fermi. E la produzione dell’acciaio è uno di questi. Se bisognerà farlo anche con risorse pubbliche non ci si dovrà sottrarre».

Nel Paese dell’azzeccagarbugli, dove per ogni ingegnere ci sono in media tre avvocati, pare che la via da percorrere per trovare una soluzione alla controversia sia quella legale. Toccherà all’«avvocato del popolo italiano» ingaggiare una battaglia in punta di fioretto con AcerolMittal per capire da che parte stare la ragione. Ma nel frattempo il rischio è che Roma bruci e che sul campo rimarrà solo cenere.

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