«Attenzione… Attenzione…». La voce, grave e impersonale, dell’annunciatore Gianbattista (Titta) Arista al giornale radio Eiar in quella pigra e afosa serata di domenica di ottant’anni fa, 25 luglio 1943, tronca i consueti commenti sulle vicende belliche e sulla mancanza di cibo. «Sua maestà il re e imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di capo del governo, primo ministro e segretario di Stato presentate da sua eccellenza il cavaliere Benito Mussolini, e ha nominato capo del governo, primo ministro e segretario di Stato il cavaliere, maresciallo d’Italia Pietro Badoglio». Commenta lo storico Gianni Oliva: «Cinque righe per liquidare vent’anni di dittatura camuffando le dimissioni quello che era un colpo di Stato». Vittorio Emanuele III e Badoglio proclamano: «La guerra continua. L’Italia, duramente colpita nelle sue provincie invase, nelle sue città distrutte, mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni».
L’inglese «Daily Express» del 26 luglio titola a tutta pagina «Mussolini resigns, si è dimesso». «La Stampa» ha la mano più leggera: «Badoglio a capo del governo. Le dimissioni di Mussolini accettate dal re». Niente a che vedere con il «Corriere della Sera» di tre anni prima (12 giugno 1940): «Ferrea consegna del re e del duce alle forze di terra del mare e dell’aria. Mussolini comandante delle truppe su tutti i fronti. La chiara visione del duce esaltata dalla stampa germanica». Beffardo, Mussolini aveva appena proclamato: «Mi hanno preparato un rifugio ma nessuno creda che io vi scenda. Quando suoneranno le sirene andrò sulla terrazza. E se gli angloamericani dovessero arrivare a Roma mi troverebbero al mio posto di lavoro». Povero illuso. Dall’altra parte della barricata «l’Unità» (clandestina) esorta a seguire l’esempio bolscevico: «Gli hitleriani sono battuti e scacciati dall’Unione Sovietica. Battiamoli e scacciamoli anche noi i fascisti dal territorio italiano». Il Ministero telegrafa alle rappresentanze estere: «Vogliate comunicare al ministro degli Esteri che il re e imperatore ha accettato le dimissioni di Mussolini e ha nominato Badoglio. L’Italia mantiene con immutata volontà sua posizione e sua politica nel conflitto».
Il popolo italiano festeggia nelle piazze e invoca pane, pace libertà. La notizia esplode come un fulmine. Non si contano manifestazioni e cortei. Tutti credono che la guerra sia finita. Si attaccano e bruciano le «Case del fascio»; si vendicano bastonate, violenze gratuite, somministrazioni di olio di ricino; si distruggono e abbattono i simboli e le immagini del dittatore; si prendono a martellate i busti. Si cancellano le scritte inneggianti al duce. A Torino brucia la Federazione fascista; i giovani rimuovono il busto e lo trascinano per le strade. Tempo dopo il cardinale arcivescovo chiama padre Ruggero Cipolla, cappellano del carcere e gli regala un busto in bronzo di Mussolini: «Me lo portò il prefetto da esporre in Curia. Io lo misi in soffitta. Adesso può servire». Padre Cipolla fa fondere il busto per il monumento a San Giuseppe Cafasso al «Rondò della forca».
Una gioia che si spegne in poche ore: «La guerra continua». Nella riunione del 27 luglio 1943 il governo militare di fatto instaura una dittatura militare: scioglie il partito e le organizzazioni fasciste; integra la Milizia nelle forze dello Stato; sopprime il Tribunale speciale; vieta la ricostituzione dei partiti politici; proibisce le manifestazioni e di portare distintivi, esporre bandiere, riunirsi in pubblico in più di tre persone. Un clima di terrore. Sui giornali ampi spazi bianchi sono frutto di una rigida censura; i cinema chiudono in forte anticipo; i militari pattugliano le strade; chiunque compie atti di violenza e ribellione, profferisce insulti contro le Forze armate e le istituzioni, fa un minimo gesto di solidarietà con i perturbatori dell’ordine, disobbedisce agli ordini, vilipende superiori e istituzioni, è immediatamente fucilato. La gente si sente soffocare. Nello scontento matura l’armistizio dell’8 settembre 1943. La dittatura è dura a morire: nasce il Partito fascista repubblicano che fonda la Repubblica sociale italiana che dura sino al 25 aprile 1945.
Su «L’Osservatore Romano» lo storico Matteo Luigi Napolitano ricostruisce le reazioni di oltre Tevere. La mattina del 25 luglio il segretario di «Propaganda fide», Celso Costantini, prega il sostituto della Segreteria di Stato, Giovanni Battista Montini, di andarlo a trovare «per un affare grave e urgente». Ad attenderlo c’è Alberto De Stefani, economista e cattedratico, ex ministro delle Finanze e membro del Gran Consiglio. Montini appunta: «Dopo discussione assai animata e obbiettiva», al Gran Consiglio si vota l’ordine del giorno auspicante il ritorno allo Statuto Albertino: «Il capo del governo ha mostrato di non avere più il controllo della situazione, né di sé stesso». I congiurati inviano in Vaticano l’ordine del giorno Grandi, la lista dei presenti e il risultato del voto. Secondo De Stefani si dovrebbe aprire una trattativa con i tedeschi per consentire all’Italia di tornare neutrale e con gli Alleati «per sapere quale trattamento riserverebbero all’Italia nel caso uscisse dal conflitto», evitando l’occupazione militare. Montini risponde che la Santa Sede non può fare alcun passo «se non invitata da organi ufficiali dello Stato» e che le intenzioni degli Alleati sono ben note: «Non risulta una richiesta italiana per un intervento della Santa Sede».
In Vaticano si pensa e si cerca cosa fare. L’ambasciatore tedesco a Roma Ernst Von Weizsäcker chiede al cardinale segretario di Stato Pietro Maglione notizie sulla situazione politica. Gli risponde di saperne ben poco. Cosa pensa delle parole di Badoglio: «La guerra continua»? Maglione è molto cauto: «L’Italia dimostra di voler procedere d’accordo con la Germania anche se ha intenzione di fare qualche passo per la cessazione delle ostilità». Che intenzioni ha la Santa Sede? «La Santa Sede desidera, e non da ieri o da oggi, sinceramente e fervidamente una pace giusta, equa e duratura, ma non può offrirsi come mediatrice se non è pregata da almeno una delle due parti. Da nessuna è stata invitata a interporsi». L’ambasciatore: «Credo che il mio governo non domanderà la pace».
Pier Giuseppe Accornero