Macron e i Vescovi, il discorso che non abbiamo letto

Francia – Pubblichiamo il discorso integrale che il Presidente Emmanuel Macron ha pronunciato lo scorso 9 aprile davanti ai Vescovi francesi. In esso Macron chiede alla Chiesa il «dono» di riversare con decisione nella vita pubblica il proprio pensiero: un approccio inatteso in Francia, difficilmente rintracciabile nel dibattito italiano. Il gesuita Eugenio Costa ha tradotto il documento

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Emmanuel Macron

Per ritrovarci qui questa sera, Monsignore (Georges Pontier, Presidente della Conferenza episcopale francese, Arcivescovo di Marsiglia, ndr), abbiamo sicuramente, lei e io, sfidato gli scettici di ogni parte. E, se l’abbiamo fatto, è certamente perché condividiamo confusamente la sensazione che il legame fra la Chiesa e lo Sato si è degradato, e che tanto a lei quanto a me importa molto ricuperarlo. Per questo, non vi è altro mezzo che un dialogo nella verità.

E’ un dialogo indispensabile e, se dovessi riassumere il mio punto di vista, direi che una Chiesa che voglia disinteressarsi dei problemi temporali non sarebbe fedele fino in fondo alla propria vocazione; e che un presidente della Repubblica che voglia disinteressarsi della Chiesa e dei cattolici mancherebbe al proprio dovere.

L’esempio del colonnello Beltrame, con il quale, Monsignore, lei ha appena concluso le sue parole, illustra questo punto di vista in modo, a mio parere, lampante.

In quella tragica giornata del 23 marzo, molti hanno tentato di dare un nome ai moventi interiori del suo gesto eroico.

Alcuni vi hanno visto l’accettazione del sacrificio, radicato nella sua vocazione militare.

Altri vi hanno visto la manifestazione di una fedeltà repubblicana nutrita dal suo percorso massonico.

Altri ancora, e in particolare la sua consorte, hanno interpretato il suo gesto come traduzione della sua ardente fede cattolica, pronta alla prova suprema della morte.

Sono dimensioni così intrecciate che è impossibile separarle, ed è anche inutile, perché in questo eroico comportamento sta la verità di un uomo che, nella sua complessità, viene rivelata.

Tuttavia, in questa Francia che non nasconde la propria diffidenza nei confronti delle religioni, non ho sentito neppure una sola voce alzarsi per contestare tale evidenza, scolpita nell’intimo del nostro immaginario collettivo, che è la seguente: quando giunge l’ora della più grande intensità, quando la prova obbliga a radunare tutte le risorse di cui si dispone al servizio della Francia, la parte del cittadino e la parte del cattolico bruciano, nel vero credente, in un’unica fiamma.

Sono convinto che i legami indistruttibili tra la nazione francese e il cattolicesimo sono stati forgiati nei momenti in cui veniva messo alla prova il reale valore degli uomini e delle donne. Non è necessario risalire fino ai costruttori delle Cattedrali e a Giovanna d’Arco : la storia recente ci offre mille esempi, a cominciare dall’ “Union Sacrée” del 1914 fino ai resistenti del ’40, dai Giusti fino ai rifondatori della Repubblica, dai Padri dell’Europa fino agli inventori del sindacalismo moderno, dalla gravità quanto mai degna che si è manifestata al momento dell’assassinio di Padre Hamel, fino alla morte del colonnello Beltrame. Sì, la Francia è stata resa più forte dall’impegno dei cattolici.

Dicendo questo, non mi sto sbagliando. Se i cattolici hanno voluto servire e far crescere la Francia, se hanno accettato di morire, non è soltanto in nome di ideali umanisti. Non è soltanto in nome di una morale ebraico-cristiana secolarizzata. Ma è perché erano mossi dalla loro fede in Dio e dalla loro pratica religiosa.

Certuni potranno giudicare questi pensieri come un’infrazione alla laicità. Ma, dopo tutto, fra i nostri martiri vi sono anche eroi di tutte le confessioni, e la nostra storia recente ce lo ha dimostrato, inclusi degli atei, che hanno trovato alla base della loro morale la sorgente di un sacrificio completo.  Riconoscere gli uni non è diminuire gli altri, e ritengo che la laicità sicuramente non abbia il compito di negare lo spirituale in nome del temporale, né di sradicare dalle nostre società la parte sacra che alimenta tanti nostri concittadini.

Come capo dello Stato, sono garante della libertà di credere e di non credere, ma non sono né l’inventore né il promotore di una religione di Stato, che sostituisca alla trascendenza divina un credo repubblicano. Rendermi volontariamente cieco riguardo alla dimensione spirituale che i cattolici investono nella loro vita morale, intellettuale, familiare, professionale, sociale, equivarrebbe a condannarmi ad avere della Francia una veduta solo parziale: sarebbe misconoscere il paese, la sua storia, i suoi cittadini; ostentando l’indifferenza, verrei meno alla mia missione.

Meno che meno vivo questa indifferenza nei confronti di tutte le confessioni che abitano nel nostro paese.

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Ed è proprio perché non sono indifferente che mi rendo conto di quanto il cammino che Stato e Chiesa da tanto tempo condividono sia oggi costellato di malintesi e di reciproca diffidenza.

Certamente, non è la prima volta nella storia. Fa parte della natura della Chiesa interrogarsi costantemente sui propri rapporti con il politico, in quell’esitazione che Marrou descrive perfettamente nella sua Théologie de l’histoire; e la storia della Francia ha visto succedersi momenti in cui la Chiesa si collocava al centro della città, e momenti in cui metteva le tende fuori-le-mura.

Ma oggi, in questo momento di grande fragilità sociale, quando il tessuto stesso della nazione rischia di lacerarsi, ritengo sia mia responsabilità fare in modo che non vada in frantumi la fiducia dei cattolici nei confronti della politica – e dei politici. Non posso accettare questo distacco. E non intendo lasciare che questa delusione si aggravi.

Ciò è tanto più vero perché la situazione attuale non è tanto il frutto di una decisione della Chiesa, quanto invece il risultato di molti anni in cui i politici hanno profondamente disatteso i cattolici francesi.

In tal modo, per un lato, una parte della classe politica ha senza dubbio giocato all’eccesso la carta dei cattolici, per ragioni che spesso erano evidentemente elettorali.

Così facendo, si sono ridotti i cattolici a quello strano animale che viene chiamato « l’elettorato cattolico”, ma che in realtà è un dato sociologico. Si è così fatto largo spazio a una visione comunitarista, che contraddice la diversità e la vitalità della Chiesa di Francia, ma anche l’aspirazione del cattolicesimo all’universale – come dice il suo stesso nome – a favore di una riduzione categoriale assai mediocre.

D’altro lato, si sono trovate tutte le ragioni per non ascoltare i cattolici, relegandoli, per acquisita diffidenza e per calcolo, a livello di una minoranza militante, che contrasta con l’unanimità repubblicana.

Per motivi insieme biografici, personali e intellettuali, dei cattolici io ho un’idea più elevata. E non mi sembra né sano né bello che il politico si sia ingegnato con tanta determinazione a strumentalizzarli e a ignorarli, mentre è di un dialogo e di una cooperazione di tutt’altra qualità, di un contributo di ben altro peso, per capire il nostro tempo e per l’azione, ciò appunto di cui abbiamo bisogno per fare in modo che le cose evolvano nel senso migliore.

Nella sua allocuzione, Monsignore, lei lo ha esposto molto bene. Le preoccupazioni che lei ha appena espresso – e cercherò di rispondere almeno ad alcune di esse, con qualche chiarimento provvisorio – non sono fantasticherie di pochi. I problemi che lei si pone non si limitano a una comunità particolare. Sono problemi per tutti noi, per la nazione, per l’intera umanità.

Sono interrogativi che interessano tutta la Francia, non perché siano specificamente cattolici, ma perché si basano su un’idea dell’uomo, del suo destino, della sua vocazione, che stanno al centro del nostro immediato divenire. Perché cercano di offrire un senso e dei riferimenti a ciò che troppo spesso ne è privo.

Sono qui questa sera appunto per riconoscere e fare spazio a questi interrogativi. E per domandarle solennemente di non sentirsi ai margini della Repubblica, ma di ritrovare il gusto e il sale del ruolo che in essa ha sempre avuto.

So bene che si è discusso, come se si trattasse del sesso degli angeli, sulle radici cristiane dell’Europa. E so che questa denominazione è stata respinta dai parlamentari europei. Ma, dopo tutto, l’evidenza storica fa talora a meno dei simboli. E soprattutto, quello che ci importa non sono le radici, perché possono anche essere morte. Quello che importa è la linfa. E sono convinto che la linfa cattolica debba ancora e sempre contribuire a far vivere la nostra nazione.

Sono qui questa sera per tentare di precisarlo. Per dirle che la Repubblica si aspetta molto da lei. Si aspetta, esattamente, se mi permette, che lei le faccia tre doni:

Il dono della sua saggezza.

Il dono del suo impegno.

E il dono della sua libertà.

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L’urgenza della nostra politica contemporanea è di ritrovare il suo radicamento nella questione dell’uomo o, per dirla con Mounier, della persona.

Nel mondo così come sta andando, non possiamo più accontentarci di un progresso economico o scientifico, che non si ponga degli interrogativi sul suo impatto sull’umanità e sul mondo. Sono andato a New York, a dirlo alla tribuna delle Nazioni Unite, ma anche a Davos, come pure al Collège de France qualche giorno fa, quando ho parlato di intelligenza artificiale: abbiamo bisogno che la nostra azione abbia una meta, e questa meta è l’uomo.

Ora, non è possibile andare avanti su questa strada senza incrociare il cammino del cattolicesimo, che da secoli cerca di andare a fondo di questo interrogativo. Lo fa, dal proprio punto di vista, in dialogo con le altre religioni. Interrogativo che prende la forma di un’architettura, di una pittura, di una filosofia, di una letteratura: tutte tentano, in mille modi, di esprimere la natura umana e il senso della vita. “Venerabile, perché ha conosciuto a fondo l’uomo”, dice Pascal della religione cristiana. Certamente, vi sono altre religioni e altre filosofie che hanno approfondito il mistero dell’uomo. Ma la secolarizzazione non può eliminare la lunga tradizione cristiana.

Al centro di questi interrogativi sul senso della vita, sul posto che riserviamo alla persona, sul modo in cui le conferiamo la sua dignità, lei, Monsignore, ha presentato due temi del nostro tempo : la bioetica e l’argomento dei migranti.

Così facendo, ha stabilito un’intima connessione fra temi, che la politica e la morale ordinarie avrebbero volentieri trattato a parte. Lei sostiene che è nostro dovere proteggere la vita, particolarmente quando è senza difesa. Tra la vita del bambino che nascerà, quella dell’essere giunto alle soglie della morte, o quella del rifugiato che ha perso tutto, lei vede che hanno in comune l’indigenza, la nudità e l’assoluta vulnerabilità.  Sono esseri esposti. Si aspettano tutto dall’altro, dalla mano tesa, dalla benevolenza che si prenda cura di loro. Sono due argomenti che mettono in causa la parte più umana di noi stessi, anzi la concezione che ci siamo fatti dell’umano. E’ una coerenza che si impone a tutti.

A questo punto, Monsignore, Signore e Signori, mi sono giunte le preoccupazioni che sorgono dal mondo cattolico. Voglio tentare di rispondevi, o comunque di offrire la nostra parte di verità e di convinzione.

A proposito dei migranti, ci viene talvolta rimproverato di non accogliere con abbastanza generosità e tenerezza. Di lasciare che si creino dei casi preoccupanti nei centri di raccolta o di respingere i minorenni isolati. Ci si accusa anche di lasciar prosperare delle violenze delle forze dell’ordine.

Ma, in realtà, che cosa stiamo cercando di fare? Nell’urgenza, tentiamo di mettere fine a delle situazioni che abbiamo talvolta ereditato, e che si sviluppano per mancanza di regole, o della loro cattiva applicazione, oppure della loro bassa qualità – sto pensando alle scadenze dei trattamenti amministrativi, ma anche alle condizioni del rilascio di titoli di rifugiati.

Il nostro lavoro, portato avanti ogni giorno dal nostro ministro di Stato, sta nel far uscire dall’incertezza giuridica delle persone che si vedono perse e che sperano inutilmente, che tentano di ricostruire qui qualche cosa, e che poi vengono espulse, mentre altre, che potrebbero rifarsi una vita da noi, soffrono le condizioni degradanti dell’accoglienza in centri superaffollati.

Quello che noi tentiamo di ottenere è la conciliazione del diritto e dell’umanità. Papa Francesco ha dato un nome a questo equilibrio: lo ha chiamato “prudenza”, facendo di questa virtù aristotelica la virtù di chi governa, che si confronta sicuramente con la necessità umana di accogliere, ma anche con quella politica e giuridica di ospitare e di integrare. E’ questa la meta di un umanesimo realista, che ho proposto.

Vi saranno sempre delle situazioni inaccettabili, e ogni volta dovremo tutti insieme fare il possibile per risolverle. Ma non dimentico neppure che abbiamo la responsabilità di territori sovente difficili, nei quali arrivano i rifugiati. Sappiamo bene che l’afflusso di nuove popolazioni getta la popolazione locale nell’incertezza, la spinge verso opzioni politiche estreme, provoca spesso una chiusura che è in realtà un riflesso di protezione. Viene fuori una forma di angoscia quotidiana, che produce una sorta di concorrenza delle miserie.

Sentiamo l’esigenza di una permanente tensione etica, per tenere insieme questi principi.  E’ il nostro umanesimo, che non vuole rinunciare a nulla, in special modo per proteggere i rifugiati. E’ il nostro dovere morale, e sta scritto nella nostra Costituzione. Impegnarci chiaramente perché venga mantenuto l’ordine repubblicano, e perché questa protezione dei più deboli non finisca per portare all’anomia e all’assenza di discernimento, perché ci sono anche delle regole che vanno fatte valere. E perché si trovino dei posti, come si è detto sopra, nei centri di accoglienza, o nelle situazioni più difficili, occorre anche accettare che, pur prendendo la nostra parte di questa miseria, non possiamo prenderla per intero senza distinguere le situazioni; dobbiamo anche tener conto della coesione nazionale del nostro paese, in cui talora alcuni non parlano più di questa generosità che abbiamo ricordato stasera, ma vogliono vedere soltanto la parte spaventosa dell’altro. E alimentano questo gesto per portare più avanti il loro progetto.

E’ appunto perché dobbiamo tenere insieme questi principi talvolta contradditori, in una tensione costante, che ho voluto che assumessimo questo umanesimo realista, che io accetto pienamente di fronte a voi.

E’ qui che abbiamo bisogno della sua saggezza, per tener fermo ovunque questo discorso di umanesimo realista, per portare all’impegno quelle e quelli che potranno aiutarci; è per evitare i discorsi del peggio, l’aumento delle paure, che continueranno a nutrirsi di questa parte di noi, perché la marea massiccia di cui lei ha parlato, e di cui sto parlando, non cesserà dall’oggi al domani. E’ il frutto di grandi disequilibri mondiali; si tratti di conflitti politici, della miseria economica e sociale, o delle sfide climatiche, continueranno ad alimentare negli anni e nei decenni futuri delle grandi migrazioni, a cui dovremo far fronte. Ma dovremo continuare a puntare alla meta senza stancarci. A cercare costantemente di mantenere i nostri principi sul reale. Da parte mia, non intendo cedere, su questo punto, né alle semplificazioni degli uni, né a quelle degli altri. Mancherei alla mia missione.

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Riguardo alla bioetica, vi è chi ci sospetta di giocare talora a carte coperte. Di sapere in anticipo i risultati di un dibattito che aprirà nuove possibilità alla procreazione assistita, con porte aperte a pratiche che finiranno poi necessariamente per imporsi, come la Gestazione a carico d’Altri. Alcuni dicono che introdurre in questi dibattiti dei rappresentanti della Chiesa cattolica, come anche dei rappresentanti di tutti gli altri culti, come ho preso l’impegno di fare all’inizio del mio mandato, è un’illusione, destinata a diluire la parola della Chiesa o a tenerla in ostaggio.

Come ben sapete, ho deciso che l’opinione del Consiglio consultativo nazionale di etica (CCNE), Signor presidente, non fosse sufficiente e che bisognasse arricchirlo di opinioni dei responsabili religiosi. E ho espresso anche il desiderio che questo lavoro sulle leggi bioetiche, che il nostro diritto ci obbliga a revisionare, possa essere alimentato da un dibattito organizzato dal detto Consiglio, ma in cui tutte le famiglie – filosofiche, religiose, politiche -, e la nostra società, possano esprimersi in modo esauriente e totale. Sono persuaso che non ci troviamo di fronte a un problema semplice, che potrebbe essere risolto da un’unica legge. Ci troviamo talora davanti a dei dibattiti morali, etici, profondi, che toccano molto intimamente ciascuno di noi.

Voglio ascoltare la Chiesa quando si mostra rigorosa sui fondamenti umani di qualunque evoluzione tecnica. Voglio ascoltare la sua voce, quando ci invita a non ridurre tutto all’agire tecnico, di cui lei, Monsignore, ha chiaramente indicato i limiti. Voglio ascoltare il ruolo essenziale che lei attribuisce alla nostra società, alla famiglia, alle famiglie, direi. Voglio ascoltare anche questo intento di saper coniugare la filiazione con i progetti che dei genitori possono avere per i loro figli.

Siamo anche di fronte a una società in cui le forme della famiglia stanno radicalmente evolvendo, in cui lo statuto del figlio talora si fa confuso. E i nostri concittadini sognano di fondare delle cellule familiari: ora oggi i nostri concittadini sognano di fondare delle cellule familiari di modello tradizionale, ma partendo da schemi familiari che lo sono meno. Voglio ascoltare le rivendicazioni formulate dalle istanze cattoliche, dalle associazioni cattoliche, ma, anche qui, alcuni principi affermati dalla Chiesa si trovano di fronte a realtà contradditorie e complesse, che attraversano gli stessi cattolici.

Tutti, tutti i giorni, le medesime associazioni cattoliche e i sacerdoti accompagnano famiglie monoparentali, famiglie divorziate, famiglie omosessuali, famiglie che ricorrono all’aborto, alla fecondazione in vitro, alla PMA, famiglie che si trovano a dover affrontare lo stato vegetativo di qualcuno di loro, famiglie in cui uno è credente e l’altro no, portando dentro alla famiglia la lacerazione di scelte spirituali e morali. So bene che questo è anche il vostro quotidiano.

La Chiesa accompagna senza sosta queste situazioni delicate e tenta di conciliare i propri principi con la realtà. Per questo, non sto affermando che l’esperienza della realtà distrugge o invalida le posizioni che la Chiesa adotta.

Dico semplicemente che, anche qui, occorre trovare il limite. Perché la società è aperta a tutte le possibilità, ma la manipolazione e la fabbricazione del vivente non possono estendersi all’infinito senza rimettere in causa la nozione stessa dell’uomo e della sua vita. Perciò il politico e la Chiesa condividono questa missione di mettere le mani nella pasta del reale, confrontandosi ogni giorno con ciò che il temporale ha, per così dire, di più intemporale.

E sovente è cosa dura, complicata, esigente e imperfetta. E le soluzioni non spuntano da sole. Nascono dall’articolazione fra questa realtà e un pensiero, un sistema di valori, una concezione del mondo. Spesso sono la scelta del male minore, sempre precaria. E anche questo è difficile ed esigente.

E’ per questo che, ascoltando la Chiesa su questi temi, non facciamo spallucce. Ascoltiamo una voce che trae la propria forza dalla realtà, e la propria chiarezza da un pensiero,in cui la ragione dialoga con una concezione trascendente dell’uomo. La ascoltiamo con interesse, con rispetto, e possiamo anche fare nostri numerosi suoi atteggiamenti. Ma questa voce della Chiesa – lo sappiamo bene tanto lei che io – non può essere un’ingiunzione. Perché è fatta dall’umiltà di coloro che plasmano il temporale. Di conseguenza, può porre soltanto interrogativi.  E su tutti questi punti, in particolare sui due temi che ho ricordato, poiché si costruiscono in profondità in queste tensioni etiche fra i nostri principi, talora i nostri ideali, e il reale, ci riportano all’umiltà profonda della nostra condizione.

Lo Stato e la Chiesa fanno parte di due ordini istituzionali differenti, che non esercitano il loro mandato sullo stesso piano. Ma ambedue esercitano un’autorità, e anche una giurisdizione. E’ così che ciascuno di noi ha forgiato le proprie certezze, e abbiamo il dovere di formularle chiaramente per stabilire delle regole, perché questo è il nostro dovere di stato. Per questo il cammino che condividiamo potrebbe ridursi a essere soltanto lo scambio delle nostre certezze.

Ma, lei e noi, sappiamo anche che il nostro compito va oltre. Sappiamo che consiste nel far vivere lo spirito di ciò che serviamo, di farne crescere la fiamma, anche se è difficile, e soprattutto se è difficile. Dobbiamo sottrarci costantemente alla tentazione di essere dei semplici gestori di ciò che ci è stato affidato.

Per questo il nostro scambio deve basarsi non sulla solidità di alcune certezze, ma sulla fragilità di ciò che ci interroga, e talvolta ci disorienta. Dobbiamo osare fondare la nostra relazione sulla condivisione di queste incertezze. Ossia sulla condivisione dei problemi e in particolare dei problemi dell’uomo.

E’ allora che il nostro scambio è sempre stato più fecondo: nella crisi, davanti all’ignoto, al rischio, coscienti di condividere il passo da compiere, la scommessa da tentare. Ed è allora che  la nazione è più spesso cresciuta grazie alla saggezza della Chiesa, perché sono secoli e millenni che la Chiesa accetta le proprie sfide e osa rischiare. E’ così che ha arricchito la nazione.

Se lei mi consente, questa è la parte cattolica della Francia. E’ la parte che, nell’orizzonte secolare, instilla comunque il problema non pacifico della salvezza, che ciascuno, credente o meno, interpreterà a proprio modo, ma di cui ciascuno sente che esso mette in gioco la sua vita, il senso di questa vita, la portata che le si attribuisce e la traccia che lascerà.

Questo orizzonte della salvezza è sicuramente scomparso del tutto dal piano ordinario delle società contemporanee, ma è un errore, e lo si vede bene dai segni che tiene nascosti. Ciascuno ha il proprio modo di nominarlo, di trasformarlo, di portarlo. Ma è questa la questione del senso e insieme dell’assoluto nelle nostre società.  E’ evidente che l’incertezza della salvezza porta in tutte le nostre vite, anche quelle più decisamente materiali, una sorta di tremito, nel senso pittorico del termine. Paul Ricoeur, se lei mi autorizza a citarlo questa sera, ha trovato le parole giuste in una conferenza fatta ad Amiens nel 1967: ”mantenere per gli uomini una meta lontana, chiamiamolo un ideale, in senso morale, e una speranza, in senso religioso”.

Quella sera, di fronte a un pubblico in cui alcuni erano credenti, altri no, Paul Ricoeur ha invitato i suoi ascoltatori a superare ciò che ha chiamato « la prospettiva senza prospettive », mediante questa formula che, non ho dubbi, ci troverà unanimi qui questa sera: “Puntare  su qualcosa di più, domandare qualcosa di più. E’ questa la speranza: è attendersi sempre di più di ciò che è fattibile”.   

La Chiesa perciò non è, ai miei occhi, quell’istanza che troppo spesso viene caricaturata come la custode dei buoni costumi. Essa è quella fonte di incertezza che attraversa la vita, e che fa del dialogo, della domanda, della ricerca, il cuore stesso del senso, anche in quelli che non credono.

E’ per questo che il primo dono che le chiedo è quello dell’umiltà dell’interrogarsi, il dono di questa saggezza che si radica nel problema dell’uomo, e quindi nelle domande che l’uomo si pone. Al suo meglio, la Chiesa è colei che dice “bussate, e vi sarà aperto”, che si pone come ricorso e come voce amica in un mondo in cui il dubbio, l’incertezza, il cambiamento sono la regola, in cui continuamente il senso sfugge, e continuamente viene ritrovato. E’ una Chiesa dalla quale non mi aspetto lezioni, ma piuttosto quella saggezza di umiltà, in particolare di fronte ai due argomenti che lei ha desiderato proporre e al cui riguardo ho accennato una risposta. Noi di fatto non possiamo non avere un orizzonte comune, cercando di giorno in giorno di fare meglio, accettando in fondo la parte di irriducibile non-tranquillità, che  accompagna la nostra azione.

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Ma porre interrogativi non significa rinunciare ad agire. Significa invece cercare di rendere l’azione conforme a dei principi che la precedono e la fondano. E’ appunto questa coerenza tra pensiero e azione che costituisce la forza di questo impegno, che la Francia si aspetta da lei. E’ il secondo dono di cui desidero parlarle.

Ciò che pesa sul nostro paese – ho già avuto occasione di dirlo – non è soltanto la crisi economica. E’ il relativismo. Anzi, il nichilismo. E’ tutto quello che fa pensare che non vale la pena. La pena di imparare. La pena di lavorare e soprattutto la pena di aprire le braccia e  impegnarsi a un servizio più grande di noi.   .

Il sistema, a poco a poco, ha chiuso i nostri concittadini nell’ “a che serve? », non rimunerando più il lavoro, o non completamente, scoraggiando l’iniziativa, proteggendo poco e male i più deboli, confinando a residenza forzata gli emarginati, ritenendo che l’epoca post-moderna, a cui siamo arrivati, fosse l’epoca del grande dubbio, che consentiva di rinunciare a ogni assoluto.

E’ in questo contesto di prosciugamento delle solidarietà e della speranza che i cattolici si sono rivolti in massa verso l’azione associativa. Verso l’impegno.

Oggi voi siete una componente importante di quella parte della nazione che ha deciso di occuparsi dell’altra parte : ne abbiamo visto la testimonianza, molto toccante, poco tempo fa, nei confronti dei malati, degli isolati, dei decaduti, dei vulnerabili, degli abbandonati, degli handicappati, dei prigionieri, senza badare alla loro appartenenza etnica o religiosa. (…) I Francesi non misurano sempre questo cambiamento dell’impegno cattolico. Siete passati da iniziative di operatori sociali a quelle di militanti associati, che si mettono dalla parte fragile del nostro paese, essendo, o no, esplicitamente cattoliche le associazioni in cui i cattolici si impegnano: vedi ad es. i « Restos [ristoranti] du coeur ».

Temo che i politici si siano comportati troppo spesso come se questo impegno fosse acquisito. Come se fosse normale. Come se le cure dedicate dai cattolici, e da tanti altri, alle sofferenze della società potessero sdoganare una certa impotenza pubblica.

Desidero rivolgermi con infinito rispetto a tutti quelli e quelle che hanno fatto questa scelta, senza tener conto del loro tempo e delle loro energie. Permettetemi anche di rivolgere il pensiero a tutti i preti e religiosi che hanno fatto di questo impegno la propria vita, e che ogni giorno, nelle parrocchie di Francia, accolgono, scambiano, lavorano a stretto contatto delle miserie o delle disgrazie, o condividono la gioia delle famiglie in occasione di eventi felici. Insieme a loro, penso anche ai cappellani militari e agli assistenti religiosi nelle carceri: ai loro rappresentanti, qui presenti, rivolgo il mio saluto. Anch’essi sono degli impegnati. E consentitemi di rivolgermi pure, in questo saluto, a tutti i membri di altre religioni, qui presenti, altrettanto impegnati, che condividono con voi questa comunanza di impegni.

Un impegno che è vitale per la Francia. E al di là degli appelli, delle insistenze, degli interrogativi che voi ci rivolgete per dirci di fare di più, di fare meglio, so bene, e lo sappiamo tutti, che il vostro lavoro non è un ripiego, ma una parte del cemento che tiene insieme la nostra nazione.

Questo dono dell’impegno non è soltanto vitale, è esemplare.

Ma sono venuto qui per invitarvi a fare ancora di più.

Non è un mistero che l’energia dedicata a questo impegno associativo è stata anche ampiamente sottratta all’impegno politico.

Ora, io penso che la politica, per quanto deludente possa essere a vista di alcuni, e arida, talora, a vista d’altri, ha bisogno dell’energia degli impegnati, della vostra energia.  Ha bisogno dell’energia di coloro che danno un senso alla loro azione e che vi collocano al centro una forma di speranza.

Più che mai l’azione politica ha bisogno di ciò che la filosofa Simone Weil chiamava l’effettività. Ossia quella capacità di far esistere nella realtà i principi fondamentali che strutturano la vita morale, intellettuale e, per i credenti, spirituale.

E’ ciò che hanno apportato alla politica francese quelle grandi figure che furono il generale De Gaulle, Georges Bidault, Robert Schumann, Jacques Delors, o ancora le grandi coscienze francesi che hanno illuminato l’azione politica, come Clavel, Mauriac, Lubac, Marrou . Quello che è stato messo in luce non è una pratica teocratica e neppure una concezione cristiana del potere, ma un’esigenza cristiana inserita nel campo laico della politica.

E’ questo spazio che oggi va ripreso. Non è affinché la politica francese abbia la sua percentuale di cattolici, di protestanti, di ebrei o di islamici; e neppure perché i responsabili di alto livello si possano trovare soltanto nelle file dei credenti, ma perché questa fiamma comune, di cui parlavo poc’anzi a proposito di Arnaud Beltrame, fa parte della nostra storia e di ciò che ha sempre guidato il nostro paese. La scomparsa  o l’occultamento di questa luce non è una buona notizia.

E’ per questo che, dal punto di vista che mi è proprio, il punto di vista di un capo dello Stato, un punto di vista laico, devo preoccuparmi che quelli che lavorano nel cuore della società francese, quelli che si impegnano a curarne le ferite e confortarne i malati, abbiano anch’essi voce sulla scena politica. Sulla scena politica nazionale come pure sulla scena politica europea. Ciò a cui questa sera vi invito è a impegnarvi politicamente, nel nostro confronto nazionale e nel nostro confronto europeo, perché la vostra fede costituisce una parte dell’impegno di cui questo confronto ha bisogno. E perché, storicamente, lo avete sempre alimentato.

L’effettività implica di non staccare l’azione individuale dall’azione politica e pubblica.

Su questo punto, devo ricordare la perfetta chiarezza del testo che la Conferenza Episcopale ha proposto nel novembre 2016, in vista dell’elezione presidenziale, intitolato “Ritrovare il senso del politico”.

Avevo fondato En Marche!  qualche mese prima e, senza volere, Monsignore, lanciarmi in una querela di diritti d’autore, ho letto quelle frasi, la cui consonanza con quello che ha mosso il mio impegno, mi aveva colpito. Vi si dice (citazione), che “non possiamo lasciare che il nostro paese veda ciò che gli dà fondamento messo a rischio di rovinarsi gravemente, con tutte le conseguenze che una società divisa può sperimentare. Dobbiamo  dedicarci insieme a un lavoro di rifondazione”.

Ricerca del senso, di nuove solidarietà, ma anche speranza nell’Europa, il documento presenta tutto ciò che può indurre un cittadino a impegnarsi, e si rivolge al cattolico unendo con semplicità la fede all’impegno politico, con la formula che voglio citare : « Il pericolo sarebbe che dimenticassimo ciò che ci ha costruiti, o che al contrario sognassimo un ritorno a un’immaginaria età dell’oro, o sperassimo in una Chiesa di puri e a una contro-cultura collocata fuori dal mondo, alta a strapiombo e in atteggiamento giudicante”.   E’ da troppo tempo che l’area politica è diventata un teatro d’ombre. Anche oggi il discorso politico si rifà troppo spesso agli schemi più consunti e più riduttivi, che paiono ignorare il soffio della Storia, e ciò che il ritorno del tragico nel nostro mondo contemporaneo esige da noi.

Ritengo che noi possiamo costruire una politica effettiva, una politica che sfugga all’ordinario cinismo, per scolpire nella realtà ciò che deve essere il primo dovere del politico: la dignità dell’uomo.

Credo in un impegno politico che sia a servizio di questa dignità. Che la ricostruisca là dove è stata tradita. Che la difenda là dove è minacciata. Che diventi il vero tesoro di ogni cittadino.

Credo in questo impegno politico, che permette di ricostruire la prima delle dignità, che è quella di vivere del proprio lavoro. Credo in questo impegno politico che consente di rimettere in piedi la dignità più fondamentale, la dignità dei più fragili, quella che appunto non cede ad alcuna fatalità sociale, e voi ne siete stati dei magnifici esempi, tutti e sei, in questo momento, e che ritiene che operare con impegno politico sia anche cambiare le pratiche, là dove ciascuno si trova nella società, incluso il suo sguardo.

Le sei voci che abbiamo ascoltato all’inizio di questa serata, sono sei voci di impegno, che contiene una forma di impegno politico, il quale non dà per scontato che si continui il cammino per trovare anche altre soluzioni, ma in cui, ogni volta, ho voluto leggere questo rifiuto della fatalità, ossia la volontà di occuparsi dell’altro, e soprattutto la volontà di una conversione dello sguardo, con le considerazioni proposte.

E’ questo l’impegnarsi in una società. Vuol dire dare del proprio tempo, della propria energia; è ritenere che la società non è un corpo morto, che può essere modificato sia da politiche pubbliche o da testi, sia pensando che tutto dipenda dalla fatalità dei tempi. Vuol dire che tutto può essere cambiato, se decidiamo di impegnarci, di fare, e così agendo, cambiare il proprio sguardo, la propria azione, dare all’altro una chance, il che ci rivela sempre che l’altro ci trasforma.

Oggi si parla molto di inclusività. Non è che sia una parola molto bella, e non sono sicuro che venga compresa da tutti quanti. Ma vuol dire questo. Quello che tentiamo di fare per l’autismo, per l’handicap, quello che voglio venga portato avanti per ridare dignità ai nostri prigionieri, quello che voglio venga portato avanti per la dignità dei più fragili nelle nostre società, è semplicemente considerare che vi è sempre un altro, a un certo punto della sua vita, a cui può ancora dare qualcosa oppure non può dare più niente, ma può apportare qualcosa alla società.

Andate a vedere una classe scolastica o una scuola materna – ci siamo andati pochi giorni fa – in cui vengono collocati dei bambini che hanno dei disturbi autistici, e vedrete quello che apportano agli altri bambini. E lei non pensi che noi semplicemente l’aiutiamo: nell’emozione del vostro fratello abbiamo ora visto tutto ciò che gli avete apportato, e che nessun altro avrebbe fatto. Questa conversione dello sguardo è resa possibile unicamente dall’impegno. E, nell’intimo di questo impegno, un’indignazione profonda, umanistica, etica. La nostra società politica ne ha bisogno.

E di questo impegno, che voi vivete, io ho bisogno per il nostro paese, e ne ho bisogno per la nostra Europa. Perché oggi il più grosso rischio per noi è l’anomia, è l’atonia, il lasciarsi addormentare. Troppi sono i nostri concittadini i quali pensano che ciò che è acquisito è diventato naturale, e dimenticano i grandi sconvolgimenti che si sono abbattuti sulla nostra società e sul nostro continente. Vogliono credere che tutto questo non ci sia mai stato, dimenticando che la nostra Europa vive qualcosa che è soltanto una parentesi dorata, dopo 70 anni di pace, quando di fatto è sempre stata scossa dalle guerre. Troppi nostri concittadini pensano che la fraternità di cui si parla, sia una faccenda di denaro pubblico e di politica pubblica, a cui non è indispensabile partecipare. Sono tutte lotte che stanno al centro dell’impegno politico contemporaneo. I parlamentari qui presenti le portano con sé, nella loro parte di verità, si tratti di combattere contro il riscaldamento climatico, o di lottare per un’Europa che protegge e che rimette in causa le proprie ambizioni per una società più giusta. Ma tutto ciò non sarà possibile se a tutti i livelli della società non li si accompagna con un impegno politico profondo, un impegno politico al quale voglio invitare i cattolici, per il nostro paese e per la nostra Europa.

Il dono dell’impegno che vi sto chiedendo, è questo: non rimanete fuori della porta. Non rinunciate a questa Repubblica, che avete così fortemente contribuito a forgiare. Non rinunciate a questa Europa, di cui avete nutrito il senso. Non lasciate incolte le terre in cui avete seminato. Non togliete alla Repubblica la preziosa rettitudine che tanti fedeli anonimi apportano alla loro vita di cittadini.

Al centro di questo impegno, di cui il nostro paese ha bisogno, vi è la parte di indignazione e di fiducia nell’avvenire, che voi potete apportare.

Tuttavia, rassicuratevi: non sono venuto a proporvi di arruolarvi. Sono anzi venuto a chiedervi un terzo dono, che potete fare alla nazione: la vostra libertà.

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Condividere un cammino non sempre significa farlo con lo stesso passo.

Mi viene in mente quel bel testo di Emmanuel Mounier, in cui spiega che la Chiesa, in politica, è sempre stata nello stesso tempo in anticipo e in ritardo. Mai del tutto contemporanea. Mai del tutto del proprio tempo. C’è chi storce la bocca.

Ma è un contrattempo che va accettato. Bisogna accettare che, nel nostro mondo, non tutto  proceda con lo stesso ritmo. E la prima libertà di cui la Chiesa può fare dono, è di non essere tempestiva. Alcuni la ritengono reazionaria. Altri, su altri punti, troppo audace. Credo semplicemente che essa debba essere uno dei punti fissi di cui la nostra umanità ha bisogno, in mezzo a questo mondo in oscillazione. Uno di quei riferimenti che non si accodano all’umore dei tempi.

Ed è per questo, Monsignore, Signore e Signori, che dovremo, bene o male, vivere con il vostro lato intempestivo, e la mia necessità di essere nel tempo del paese. Ma proprio questo costante squilibrio ci farà camminare insieme.

Diceva Grégoire che “la vita attiva è servizio, la vita contemplativa è una libertà”. Vorrei, questa sera, nel ricordare l’importanza di questa parte intempestiva, e di questo punto fisso che potete rappresentare, avere un pensiero per tutte quelle e per tutti quelli che si sono impegnati in una vita reclusa, o una vita comunitaria, una vita di preghiera e di lavoro. Anche se per alcuni sembra in controtempo, questo tipo di vita è anche l’esercizio di una libertà. Dimostra che il tempo della Chiesa non è quello del mondo, e non è sicuramente quello della politica, così come essa va avanti. E va molto bene così.

Quello che mi aspetto che la Chiesa ci offra, è anche la sua libertà di parola. Abbiamo detto degli allarmi lanciati dalle associazioni o dall’episcopato. Penso anche agli ammonimenti del Papa, che trova, aderendo costantemente alla realtà, i motivi per ricordare le esigenze della condizione umana. Questa libertà di parola, in un’epoca in cui i diritti vengono sbandierati, presenta spesso la particolarità di ricordare i doveri dell’uomo. Verso se stessi, verso il prossimo o verso il nostro pianeta.

Il semplice accennare ai doveri che dobbiamo assumerci, talvolta è irritante. Questa voce, che sa dire ciò che ci fa rabbia, i nostri concittadini la ascoltano, anche se sono lontani dalla Chiesa. E’ una voce che non manca di ironia, “un po’ tenera e un po’gelida”, come diceva Jean Grosjean nel suo commento a Paolo. Una voce che sa, come pochi altri, sovvertire le certezze fin nelle proprie file.

Questa voce, che diventa ora rivoluzionaria ora conservatrice, e sovente tutte e due alla volta, come diceva Lubac nei suoi Paradoxes, per la nostra società è importante. Bisogna essere molto liberi per osare essere paradossali, e bisogna essere paradossali per essere davvero liberi. E’ quanto ci ricordano i migliori scrittori cattolici, da Maurice Clavel a Alexis Jenni, da Georges Bernanos à Sylvie Germain, da Paul Claudel a François Sureau, da François Mauriac a Florence Delay, da Julien Green a Christiane Rancé.

In questa libertà di parola e dello sguardo, che è loro tipico, troviamo una parte di ciò che può illuminare la nostra società. E in questa libertà di parola faccio rientrare la volontà della Chiesa di iniziare, intrattenere e rafforzare il libero dialogo con l’islam, di cui il mondo ha tanto bisogno e che lei ha ricordato.

Perché non vi è comprensione dell’islam che non passi attraverso i suoi chierici, così come non vi è dialogo interreligioso senza le religioni.

Questo luogo ne è testimone: il pluralismo religioso è un dato fondamentale del nostro tempo. Monsignor Lustiger lo aveva fortemente intuito quando ha voluto far rivivere il Collège des Bernardins per accogliere tutti i dialoghi. La storia gli ha dato ragione. Non vi è oggi nulla di più urgente che far crescere la reciproca conoscenza dei popoli, delle culture, delle religioni. E, per farlo, non vi sono altri mezzi che l’incontro, di persona ma anche tramite i libri, e il lavoro condiviso, tutte cose di cui Benedetto XVI aveva illustrato le radici nel pensiero dei cistercensi, quando passò di qui nel 2008.

Questo condividere si svolge in piena libertà, ciascuno nei propri termini e con i propri riferimenti. È lo zoccolo duro e indispensabile del lavoro che lo Stato, da parte sua, deve svolgere per pensare, sempre da capo, il posto delle religioni nella società e il rapporto fra religioni, società e potere pubblico. E per questo conto molto su di lei, su tutti voi, per nutrire questo dialogo e fargli mettere radici nella nostra storia comune, che ha le sue caratteristiche, ma la cui caratteristica è di avere appunto sempre connesso con la nazione francese questa capacità di pensare gli universali. Questa condivisione, questo lavoro, lo portiamo avanti decisamente, dopo tanti anni di esitazione o di rinuncia. E i prossimi mesi saranno decisivi a questo proposito.

Questa condivisione, che voi tenete viva, è tanto più importante quando si sa che i cristiani pagano con la loro vita l’attaccamento al pluralismo religioso. Penso ai cristiani d’Oriente. Il politico condivide con la Chiesa la responsabilità di questi perseguitati. Non soltanto abbiamo ereditato storicamente il dovere di proteggerli, ma sappiamo bene che, dovunque si trovino, sono l’emblema della tolleranza religiosa. Penso con rispetto allo stupendo lavoro compiuto da movimenti come l’Oeuvre d’Orient, Caritas France e la Comunità di S. Egidio, per permettere l’accoglienza sul territorio nazionale della famiglie rifugiate, e per essere di aiuto nei luoghi stessi, con l’appoggio dello Stato.

Come ho detto in occasione dell’inaugurazione dell’esposizione Chrétiens d’Orient, a l’Institut du Monde Arabe lo scorso 25 settembre, l’avvenire di quest’area del mondo non potrà farsi se non con la partecipazione di tutte le minoranze, di tutte le religioni, e in particolari dei cristiani d’Oriente. Sacrificarli, come qualcuno vorrebbe, dimenticarli, equivale a essere sicuri che nessuna stabilità, nessun progetto, potranno esistere stabilmente in questa regione.

Vi è infine un’ultima libertà di cui la Chiesa deve farci dono: la libertà spirituale.

Perché non siamo fatti per un mondo che sia attraversato unicamente da scopi materialistici. I nostri coetanei hanno bisogno, credenti o non credenti, di sentir parlare dell’uomo da un’altra prospettiva, diversa da quella materiale. Hanno bisogno di saziare un’altra sete, che è una sete di assoluto. Qui non si tratta di conversione, ma di una voce che, insieme ad altre, osi ancora parlare dell’uomo come di un vivente dotato di spirito. Che osi parlare di altro che non del temporale, ma senza abdicare alla ragione né alla realtà. Che osi entrare nell’intensità di una speranza e che, qualche volta, ci faccia toccare con mano quel mistero dell’umanità che si chiama la santità, di cui papa Francesco dice, nell’esortazione pubblicata questi giorni, che essa « è il volto più bello della Chiesa ».

Questa libertà consiste nell’essere voi stessi. Senza cercare di compiacere né di sedurre. Ma compiendo la vostra opera nella pienezza del senso. Nella regola che è la sua e che, da sempre, ci offre pensieri forti, una teologia umana, una Chiesa che sa guidare sia i più ferventi sia i non-battezzati, chi è stabile e chi è fuori.

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« Una Chiesa trionfante in mezzo agli uomini non dovrebbe forse preoccuparsi di aver già tutto compreso riguardo alla propria elezione, dopo aver stipulato un compromesso con il mondo ? »

La domanda non la pongo io : sono le parole di Jean-Luc Marion, che dovrebbero servire da balsamo per la Chiesa e per i cattolici quando si presenta il dubbio sul posto dei cattolici in Francia, sull’ascolto della Chiesa, sulla considerazione di cui sono oggetto. La Chiesa non è totalmente del mondo, e non deve esserlo. Noi, che siamo alle prese con il temporale, lo sappiamo bene, e non dobbiamo cercare di tirarla dentro integralmente, come del resto non dobbiamo farlo con alcun altra religione. Non è il nostro compito, e non è il loro posto.

Ma questo non esclude la fiducia, non esclude il dialogo. Soprattutto, non esclude il reciproco riconoscimento delle nostre forze e delle nostre debolezze, della nostre imperfezioni istituzionali e umane.

Viviamo in un’epoca in cui l’alleanza delle buone volontà è troppo preziosa per tollerare che esse perdano tempo a giudicare le une le altre. Una volta per sempre dobbiamo ammettere la scomodità di un dialogo che si basa sulla disparità delle nostre nature. Ma ammettere anche la necessità di questo dialogo perché, ciascuno nel proprio ordine, puntiamo a scopi comuni: la dignità e il senso.

Certo, le istituzioni politiche non hanno promesse d’eternità; ma la Chiesa stessa non può rischiare prima del tempo di falciare il buon grano e la zizzania. E in questo tempo di mezzo, nel quale stiamo, in cui abbiamo ricevuto l’incarico dell’eredità dell’uomo e del mondo, ebbene: se noi sappiamo giudicare le cose con esattezza, potremo realizzare insieme grandi cose.

Questo significa forse attribuire alla Chiesa di Francia una responsabilità esorbitante, ma è all’altezza della nostra storia, e stasera il nostro incontro attesta, penso, che voi vi sentite pronti.

Monsignore, Signore e Signori, sappiate in ogni modo che anch’io mi sento pronto.

Vi ringrazio.

Emmanuel MACRON

Traduzione di Eugenio Costa s.J.

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