«La sera della vigilia della Consolata, per tutta l’infanzia, Emilio era uscito a vedere l’illuminazione con l’intera famiglia: papà, mamma, zii, zie e cugini. Aveva un ricordo nettissimo. Camminava la mano nella mano a qualcuno dei grandi».
Soldati – che era stato alunno del «Sociale» e compagno di scuola di Carlo Maria Martini» – ha due succose pagine sulla Consolata e rivive la passeggiata del giovane Emilio: parte dal Po, arriva in centro, approda al santuario: «In via Po, quanto era lunga, gli scomparti dei palazzi, i cornicioni, i davanzali, i timpani delle finestre e delle mansarde, erano rilevati e punteggiati da innumerevoli, tremolanti fiammelle verdi, azzurre, rosse, gialle. Il colpo d’occhio in piazza Castello: tutta la parte di sinistra, a lumini blu e gialli; tutta quella di destra, cioè l’Accademia Militare, il Regio, la Prefettura, l’Armeria, Palazzo Reale, Palazzo Chiablese spenti. Era una solennità religiosa, e quel buio era polemico: tra il Papato e lo Stato italiano, dal 1870 continuava la lite. Ricominciavano le luci appena si entrava in via Palazzo di Città, e sfolgoravano fino al santuario. Era, quella, l’antica Torino: vicoli diritti e stretti fra le case altissime… ovunque monogrammi col nome di Maria con un’infinità di lumini di vetro di tutti i colori». Soldati – come tutti – ha chiarissimo che la Consolata è Torino.
Emilio arrivava a «piazza Palazzo di Città, via Milano, via Corte d’Appello, piazza del Carmine: l’animazione della folla, la luce e la fantasia delle decorazioni, crescevano man mano che ci si avvicinava al santuario. Tutto palpitava, con le infinite fiammelle multicolori, in un’ebbrezza santa, in un’esultanza assurda: come se, miracolosamente, la gioia e la virtù andassero d’accordo: come se la libertà la novità la bizzaria fossero benedette come se l’ordine fosse distrutto o capovolto».
Emilio bambino «che a quell’ora, per tutte le altre sere dell’anno, doveva essere a letto a dormire, ecco non soltanto era ammesso a passeggiare per la città, ma anzi era invitato a lodare lo spettacolo, a compiacersi a divertirsi, a fare festa. Le cupole della Consolata erano il trionfo: leggermente deludente per la semplice ragione che era il massimo dell’illuminazione, che non c’era da aspettarsi nessun edificio meglio e più illuminato. Era il massimo ed era la fine».
Con occhio scrutatore e intelligente Soldati narra «l’interno del tempio, la devozione sembrava che facesse festa: o, almeno, non aveva più nulla di cupo o di noioso. La gente camminava parlando ad alta voce tra le pareti scintillanti e tappezzate dalle miriadi degli ex voto. Si accostava ridendo a osservarne qualcuno: i passi rimbombavano sul marmo. Non si pregava, tutt’al più si dicevano frettolose e distratte giaculatorie. Per inginocchiarsi, non c’era spazio».
Questo quanto vede e prova Emilio bambino, che è chiaramente Mario Soldati da piccolo. Poi la scena cambia. Emilio da grande, alla vigilia della partenza per Roma, e la fidanzata Veve «presero il tram e scesero a piazza Castello. Continuarono a piedi per via Palazzo di Città. Veve si appoggiava al suo braccio. Quando era necessario passare attraverso una folla più fitta, si stringeva a lui. Veve aveva ottenuto il permesso di rincasare anche dopo la mezzanotte. Quando giunsero sulla piazzetta della Consolata, il primo istante, come accadeva a tutti, trasalirono fermandosi davanti all’esplosione luminosa delle cupole e della facciata».
Un altro scrittore che dedica pagine memorabili alla Consolata è Valdo Fusi, protagonista nella Resistenza – si salva dalla strage del Martinetto nel 1944 – e di professione fa l’avvocato. Nel suo libro più famoso «Torino un po’» del 1977 ha un capitoletto dal titolo «Consolata da chi?». Scrittura nervosa, immaginifica, molto particolare
«Millenaria torre; quasi bimillenarie memorie della chiesa di Sant’Andrea che custodì l’immagine di Maria. Il santuario nasce e si afferma per un miracolo: quello del cieco di Briançon. Miracolo miracoloso e unico». Sulla piazza «smerciano paccottiglia pseudoreligiosa e, come costuma, anche bambole repellenti formato naturale, fazzolettoni colorati, radioline, frittelle. Torino certi affari li ammazza in germe».
«La Consolata è una bollente caldaia; gente prende due tram per pregare qui. Il santuario nasce e si afferma. Ma in passato, per un millennio, fu arsenale, officina, centrale elettrica, rifugio antiaereo, pronto soccorso, clinica. Pareti e soffitto inspessiti da incrostazioni di milioni di preghiere che non bastavano le aperture a incanalarne l’uscita, lacrime salite imbevendo e impastando l’intonaco e scolorendolo».
«Città marziale e maschile, tutti in uniforme, questi torinesi bislacchi il loro santo protettore Giovanni Battista non lo frequentano molto; la Sindone che è la Sindone, mai visto nessuno pregarci; per protettore hanno di prepotenza eletto una signora, la Signora, una madre, la Madre. La sera quella processione che incantava il matematico e umanista e scrittore e direttore di giornali Filippo Burzio, si dipana attorno al santuario».
La pagina più bella e poetica di Fusi per me è questa: «Ingenua sagra paesana, lodevolmente disordinata, non è mica una processione, è una passeggiata, portano a spasso la loro Madre, le fanno vedere un po’ di gente, e si fanno vedere in sua compagnia, lumini occhieggiano dalle finestre, pregano o fanno finta, vanno dietro, in un rito eguale da secoli, a un simbolo di tenerezza, alla loro Madre, testimoniano pace mitezza buona volontà».
«Per quindici anni ci venne, il mattino, Silvio Pellico: di nulla aveva bisogno, nemmeno di consolazione. Veniva a recare, il mattino, consolazione alla Consolatrice. Ci andava anche Vittorio Amedeo II, ma quel tipo lì ci aveva il suo caratteraccio; bisbetico e comandone; c’erano dei giorni che Le veniva l’impulso di farlo correre, Vittorio Amedeo II».
«Anche il Beato Cafasso; Le dava gioia; un prete che avercene»: è singolare il fatto che Giuseppe Cafasso è santo dal 1946 e Valdo Fusi nel 1977 non può non saperlo e lo chiama «beato». Un po’ come Giuseppe Benedetto Cottolengo che è santo dal 1934, eppure molti continuano a chiamarlo «beato».
Pier Giuseppe Accornero