La festa di Santa Rita e il cardinale Pellegrino

Storia – Con la schiettezza e l’umiltà che gli erano abituali, il cardinale Arcivescovo di Torino Michele Pellegrino nel 1965 riflette sulla festa di Santa Rita (22 maggio), celebrata con particolare solennità nel santuario a lei dedicato a Torino

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«Io entrai arcivescovo a Torino nel 1965. L’anno dopo fui invitato a celebrare la festa di Santa Rita, la santa degli impossibili. Confesso che per un anno o due non ebbi il coraggio di andarci perché temevo di avallare con la mia presenza qualche cosa che era difficile impedire ma che non volevo avallare perché sapevo come andavano le cose: la benedizione delle macchine fatta sul piazzale da un prete in cotta e stola, con il chierichetto che porta l’aspersorio dell’acqua santa e il vassoio per i soldi. Sapevo – cose che sentivo dire – di prostitute che andavano a quella festa, a confessarsi, a far la Comunione senza alcuna intenzione di cambiare mestiere. Mi dicevo: “Se vado io, cosa succede?”». Con la schiettezza e l’umiltà che gli erano abituali, il cardinale arcivescovo di Torino Michele Pellegrino (1965-1977), riflette sulla festa di Santa Rita (22 maggio), celebrata con particolare solennità nel santuario a lei dedicato a Torino.

Nata a Roccaporena, presso Cascia (Perugia), vive dal 1381 al 1457. Dopo la tragica morte del marito e dei due figli, entra nel convento delle Agostiniane e soffre sino alla fine una grave e dolorosa malattia. Donna del popolo conosce le miserie umane e violenza ma e odio che vince con il perdono. La chiamano «la santa degli impossibili» e delle malattie incurabili.

Pellegrino prosegue: «In questo santuario passano, e vengono anche da lontano, non meno di diecimila persone per la festa. E perché io, vescovo, che ho come principale missione il servizio della Parola di Dio sto al di fuori di questa gente, non ne approfitto per prendere contatto, per portar loro una parola evangelica? Allora ho accettato di andare e ho continuato, e ci andrò anche quest’anno perché mi sono accorto che c’è modo di purificare certe usanze, di correggere certe mentalità. E ho pubblicato in un libretto le omelie» (cfr. Michele Pellegrino, «Il culto dei santi. Attualità di Santa Rita da Cascia», Elle Di Ci, 1975). In sostanza difende la religiosità popolare «perché bisogna cercare di scoprire gli elementi validi». È quanto sostiene Pellegrino – non più arcivescovo di Torino – in un corso del 1979 all’Università di Ginevra sulla «Religiosità popolare».

«Ci sono forme di religiosità a cui il vescovo non può essere indifferente, dove la Messa è considerata un numero di una festa – l’adunata degli Alpini o dei Bersaglieri – ma deve disturbare il meno possibile. Oppure, e qui la cosa è più grave, quando sul sagrato di San Pietro, quattro volte nel 1978 – ai funerali di Paolo VI e di Giovanni Paolo I e all’insediamento di Giovanni Paolo I e di Giovanni Paolo II – da una parte c’eravamo noi cardinali e vescovi; dall’altra i rappresentanti dei governi, parecchi notoriamente atei e alcuni che si professano cristiani ma che forse sarebbe meglio se si professassero atei. Mi domandavo: che religiosità è questa? E sognavo il giorno in cui, a tale manifestazione, vedremo gli emarginati delle borgate romane, che hanno diritto di trovarsi con il loro vescovo all’inizio della sua missione».

«Non mi illudo di fare una presentazione scientifica della religiosità popolare. Mi domando: qual è il comportamento dei pastori, dei preti, dei vescovi? Vedo due atteggiamenti opposti con una gamma di sfumature. 1) Opposizione decisa di chi concepisce queste manifestazioni come forme di paganesimo o di alienazione, e fa o vorrebbe fare come San Martino di Tours: andando in giro nella Gallia, ogni volta che trova un santuario pagano ordina di abbatterlo, o come hanno fatto quei cristiani che hanno incendiato la sinagoga e quei monaci che hanno dato fuoco a un tempio di valentiniani con l’appoggio, purtroppo, di Sant’Ambrogio. Ho trovato alcuni decisi a spogliare le chiese da una molteplicità di immagini, decisi ad abbandonare certi riti come la benedizione delle case, dicendo che non si va nelle case a spruzzare i muri di acqua santa. 2) Atteggiamento segnato da larga tolleranza, da approvazione per timore di rotture e allontanamenti o per condivisione di mentalità».

Porta l’esempio degli Angli che sacrificano buoi agli idoli. Si rivolgono a Gregorio Magno: «Quando fanno una festa, per esempio in onore dei martiri, questi nuovi cristiani vorrebbero uccidere e mangiare i buoi alla gloria del Dio vero e non degli idoli. San Gregorio risponde: “Abbiate pazienza, ma è impossibile proibire tutto in una volta a gente così rude”». Pellegrino aggiunge: «Perché condannare certe religiosità solo perché non mi piacciono? Perché dovrei condannare il contadino che porta al santuario l’ex voto che ritrae la stalla, le vacche, il suo mondo? Cerchiamo di rispettare le persone. Il rispetto vieta al responsabile della comunità di mettere la comunità di fronte a innovazioni non preparate: dieci madonne sono forse troppe in una chiesa, ma farne sparire nove nella notte, con il rischio di preoccupare la gente, non è altrettanto male? Preparare la gente è un modo per rispettarla».

Altro principio importante: scoprire in questa religiosità gli elementi validi. Cita un eminente monaco liturgista. All’abbazia di Montserrat giungono «da tutta la Catalogna offrendo frutta, pane, vino, olio, verdure, fiori, animali da cortile, lavori di artigianato, lampade votive, trofei sportivi, stemmi e gonfaloni delle organizzazioni ricreative o culturali». L’arcivescovo emerito di Torino ricorda le maglie della Juventus e del Torino offerte al santuario di Oropa. Il liturgista spagnolo aggiunge: «Giovani percorrono a piedi anche 200 chilometri e portano un fascio di 38 spighe di grano, raccolte nelle 38 zone agricole della Catalogna». Commenta Pellegrino: «Mi pare che questi siano motivi veramente validi. Spesso nella pietà popolare si manifesta una sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere».

«Il Vangelo non è zona di caccia degli intellettuali, il Vangelo è per tutti. Il dotto che vuol capirlo deve abbassarsi in umiltà; riconoscere gli elementi validi; guardare non tanto le singole espressioni ma rafforzare la cultura popolare di cui si nutre la religiosità; purificare le forme che non si possono accettare e purificare l’atteggiamento di chi pretende di fare da giudice e arbitro del fratello». Patrologo di fama mondiale, Pellegrino ripete l’espressione cara a Sant’Agostino «Humili charitate», cioè «una carità nutrita di umiltà, un’umiltà che si espande nella carità».

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