È sempre utile partire dalla cronaca, perfino un romanziere di razza come Gabriel Garcìa Marquez faceva così. Un’analisi attenta dei fatti, da vero e proprio reporter, era per il premio Nobel colombiano il punto di partenza per narrazioni geniali, metafore straordinarie. Sembra incredibile che quello che noi chiamiamo, con un pizzico di etnocentrismo, «realismo magico» nasca a tutti gli effetti da un realismo che verrebbe da chiamare «assoluto», ovvero da una attenta e minuziosa analisi dei fatti. Incominciamo, allora, seguendo l’esempio di un maestro, proprio dalla cronaca. Mettiamo prima un vetrino sul microscopio e poi regoliamo l’ottica dello strumento perché metta bene a fuoco, cercando nei dettagli un indizio che ci restituisca un’intuizione più grande, una specie di disegno complessivo. Prendiamo in analisi un periodo non particolarmente lungo, diciamo l’ultima settimana. Ecco i fatti: Foggia, vicepreside rimprovera un alunno, il padre del ragazzo lo picchia a sangue. Piacenza, studente di prima media picchia la sua professoressa. Valle del Savio (Cesena), ragazzino sferra un pugno sul naso della sua insegnante. Tutto questo negli ultimi giorni, ma basta andare indietro di un paio di settimane per leggere la notizia della professoressa di Caserta accoltellata al viso da un suo studente, perché colpevole di una interrogazione che aveva lo scopo di permettergli di recuperare una insufficienza.
Tutto orribile e ingiustificabile, inutile perfino ragionarci, bisogna condannare e basta. Il fatto, tuttavia, è che non preoccupano solo questi episodi in qualche modo eclatanti, ma terrorizza quel rumore di fondo che non abbandona mai le nostre orecchie e che è fatto di schiere di genitori che protestano vibratamente (l’unica buona notizia è che non tutti arrivano alla violenza) rimproverando gli insegnanti dei loro figli per un brutto voto o per una nota disciplinare.
Ok, applichiamo il metodo scientifico. Prendiamo un altro vetrino: proviamo a raggiungere una conoscenza della realtà più ampia, più oggettiva, affidabile, verificabile. Vetrino numero 2, allora: il mondo dello sport. Altro fatto recente, apparentemente piccolo, ma che ci offre un ulteriore punto di vista: è successo nella pallavolo, lo sport di squadra per eccellenza, fatto di valori, di relazioni, privo del contatto fisico. Un allenatore decide di sostituire una sua giocatrice per scarso rendimento, lei prende molto male la decisione, chiede un chiarimento al termine del match per il quale, tuttavia, non c’è tempo: arriva prima il padre della ragazza che rifila un cazzotto al tecnico.
Basta vetrini, c’è materiale a sufficienza. Proviamo a trovare un significato più generale, che provi a raccontare qualcosa in più di questo curioso momento storico che stiamo attraversando. Proviamo a immaginare di essere come quei pittori che, pur osservando da pochi centimetri la tela dove, con il loro pennello, stanno dipingendo un piccolo tratto bianco, riescono contemporaneamente a vedere il quadro come se fossero cinque metri più indietro, distanza dalla quale si capisce chiaramente che quei millimetri di colore bianco sono, in realtà, un riflesso su una perla della collana di una donna bellissima.
Cosa è dipinto sulla nostra tela, dunque? Cosa rappresenta il quadro nella sua interezza? Io ci vedo una preoccupante realtà che definirei meglio come la mortificazione, lo svilimento, il vilipendio della figura dei maestri. Tutti siamo cresciuti incrociando sulla nostra strada persone che ci hanno insegnato delle cose. Spesso da adulti (che è proprio quel momento in cui, finalmente, si può vedere il quadro dalla distanza di cinque metri) abbiamo capito più distintamente che qualcuno di quei maestri ci aveva davvero cambiato la vita. Un familiare, un insegnante, un allenatore. Qualcuno a cui abbiamo riconosciuto un carisma, in cui abbiamo intravisto una magnitudine intellettuale o addirittura spirituale. Qualcuno di cui ci siamo fidati e a cui ci siamo affidati, qualche volta anche incondizionatamente, semplicemente convinti del fatto che la parola del nostro maestro fosse in qualche modo così autorevole da non poter essere messa in discussione.
Il maestro, quel tipo di maestro, aveva spesso caratteristiche ben precise: era un profondo conoscitore della sua materia, aveva esperienza, possedeva una certa capacità di eloquio, un fascino esercitato nelle sue azioni e trasmesso dalle sue parole. Aveva, in sostanza, la capacità di farci amare l’oggetto della sua conoscenza, qualunque esso fosse. Tutto questo faceva sì che, fino a non troppi anni fa, il maestro fosse una figura centrale della nostra società, un ruolo che in maniera molto naturale si accompagnava a un sentimento di rispetto e autorevolezza. Certamente qualcosa è successo, ci è sfuggito dalle mani. Ed è sfuggito proprio a noi, prima generazione di esseri umani ad essere stati risparmiati dal terrore della guerra, ad aver beneficiato dei progressi della scienza e della medicina, ad avere a disposizione non solo un allungamento dell’aspettativa di vita, ma una qualità della vita mai vista prima. Proprio noi, cresciuti in mezzo a una accessibilità alla conoscenza diventata universale, ci ritroviamo ad essere una società che non sa nulla, ma pretende di spiegare tutto agli esperti. Anzi, giorno per giorno si evidenza una forma di disprezzo per coloro che, un tempo, ci insegnavano a considerare maestri.
Se c’è un tratto comune che ha segnato l’inizio di sinistri scricchiolii provenienti tanto del mondo della scuola, quanto dal mondo dello sport del nostro Paese, è proprio l’aver smarrito il senso del rispetto e, di conseguenza, devastato la dignità dei maestri, sia quelli dietro alle cattedre sia quelli seduti in panchina. È curiosamente difficile declinare la parola maestro includendo i due generi. Se al maschile il termine ha una certa autorevolezza e un significato più ampio, al femminile ci riporta quasi esclusivamente al ricordo delle scuole elementari. Rimettere al centro questa figura (al maschile o al femminile che sia) è tuttavia l’unica strada che abbiamo per trovare una terapia a quest’età della rabbia, del risentimento, del populismo.
Rimettere al centro dei progetti educativi gli insegnanti, rimettere al centro dei progetti sportivi gli allenatori non è (solo) un fatto economico. Certo è anche un tema di stipendi, di autonomia, di tempo a disposizione per poter costruire, ma soprattutto è un delicatissimo tema di ricostruzione di dignità di una figura intorno alla quale si stringeva la comunità intera (e ancora è così oggi in qualche parte dell’Europa e del mondo). Ritengo che ci siano tre indicatori del grado di civiltà di un Paese: la qualità che esprime nella tutela e nella difesa del diritto alla salute (gli ospedali pubblici, insomma), nel mondo dell’istruzione (la scuola, quella pubblica anch’essa) e nel mondo dello sport (qui, purtroppo, nel settore pubblico non esiste nulla o quasi…). Un Paese dove gli studenti, o i loro genitori, possono anche semplicemente pensare di poter picchiare degli insegnanti, un Paese dove gli atleti non riconoscono più nessuna autorità ai loro allenatori, un Paese dove i pazienti credono di potersi sostituire ai medici formandosi su Wikipedia o su qualche blog, è un Paese destinato all’imbarbarimento. La soluzione? Affidarsi ai maestri, chiedendo a quelli che ancora abbiamo di riconquistarsi l’autorità, la dignità e la bellezza di un gesto, che altro non è che quello dell’insegnare, ovvero prendersi cura degli altri e allenare all’arte del desiderio di conoscenza, di curiosità, di bellezza, di armonia, di equilibrio.