Dopo 28 anni i torinesi possono ammirare di nuovo la Cappella della Sindone, il capolavoro dell’abate Guarino Guarini. Ma la Sindone resterà nella sua attuale collocazione, sotto la Tribuna Reale al fondo della navata di sinistra del Duomo.
Con il viaggio più breve, il 24 febbraio 1993 la Sindone viene spostata dalla Cappella al coro della Cattedrale ed è collocata in una cassa di cristallo formata da 14 lastre di 30 quintali. Il 5 settembre 1995 il cardinale arcivescovo di Torino Giovanni Saldarini annuncia due ostensione della Sindone, volute da Giovanni Paolo II, nel 1998 e nel 2000. Per quattro anni il centro di Torino si trasforma in un grande cantiere: Cappella, Cattedrale, Piazzetta Reale, Palazzo Reale, Torri Palatine, Palazzo Chiablese. Gli scavi nella zona del Teatro Romano riportano alla luce i resti di tre antiche chiese, abbattute per edificare il Duomo cinquecentesco.
Il cantiere sta per chiudere. Alle 22,50 di venerdì 11 aprile 1997 il fuoco intacca la Cappella, il Palazzo Reale, il Duomo. Solo un’ora dopo, alle 23,45, scatta l’allarme alla centrale dei pompieri: 150 uomini accorrono dal Piemonte, da Caselle, da Milano con cannoncini che sparano ettolitri di acqua. Eroe tra gli eroi è Mario Trematore, 44 anni, capo della squadra 21 che all’l,20 raggiunge il coro del Duomo. Con una mazza da 4 chili demolisce la teca. Racconta: «Colpisco con tutta la forza. Prendo in braccio lo scrigno. Correndo verso l’uscita trovo mons. Giacomo Maria Martinacci, cancelliere della Curia. “La prenda lei” gli dico. “No, portala fuori tu”».
Accanto al sindaco Valentino Castellani il card. Saldarini è impietrito: «Com’è successo? Com’è successo? Mio Dio, mio Dio. Com’è possibile? Dov’è scoppiato l’incendio? Salvate la Sindone». Prega “in silenzio, guarda, non dice una parola, allontana microfoni e telecamere. Una città stordita, sgomenta, incredula, quasi pietrificata. Il cardinale rincuora tutti: «È una tragedia, ma ringraziamo il Signore che non ci sono state vittime né feriti. Ricostruiremo la Cappella, l’ostensione del 1998 si farà. Ringraziando il Signore, la teca della Sindone non è stata coinvolta. La Cattedrale è stata risparmiata. I danni più rilevanti sono nella Cappella. Ringrazio vigili del fuoco, autorità civili, militari e di polizia. Il Papa mi ha detto di rendermi interprete del suo ringraziamento».
La splendida Cappella palatina, edificata dal geniale Guarino Guarini, è ridotta a un cumulo di macerie. Ha lesioni gravissime, diffuse, devastanti. Contro il capolavoro seicentesco si sono coalizzate forze mostruose. La micidiale miscela di fuoco e acqua provoca lo «choc termico» e la calcificazione delle strutture. L’apertura delle porte del Duomo, l’esplosione della vetrata tra Cattedrale e Cappella, la riduzione in frantumi delle vetrate della cupola e il vento forte di quella notte hanno causato «l’effetto camino». Il restauro si presenta complesso e difficile, lungo e pericoloso perché la struttura è instabile. Se la Sindone si fosse trovata nella Cappella il calore di mille gradi avrebbe fuso la cassa- come successe parzialmente nell’incendio di Chambéry nel 1532 – e la tela sarebbe andata in fumo. Dieci giorni dopo il rogo Saldarini ribadisce che «la Sindone è il lenzuolo che ha avvolto il corpo di Cristo». Chi segue quelle vicende con grande apprensione è mons. Franco Peradotto, direttore de «La Voce del Popolo», provicario generale e rettore della Consolata. Nell’articolo «Una vita davanti al Volto» («La Voce del Popolo», 20 agosto 2000) racconta i suoi rapporti con la Tela, dall’ostensione 1933 fatta dal cardinale Maurilio Fossati su espresso desiderio di Pio XI per solennizzare il Giubileo della Redenzione: «Davanti alla Sindone non è mai un “bis”: l’esperienza è sempre nuova e irripetibile. Ecco la testimonianza di chi scrive, periodicamente pellegrino, talora anche un po’ privilegiato, davanti alla Sindone. Era l’inizio dell’autunno 1933. Avevo 5 anni e conservo un ricordo molto infantile, quasi un sogno o una favola, di una visita con i miei familiari, tra essi nonno Cesare, il “saggio di famiglia”. Eravamo scesi da Cuorgnè (il suo paese, n.d.r.) con la Canavesana, ci inoltrammo nel Duomo e sostammo nel buio quasi totale d vanti al grande Lenzuolo macchiato di sangue,così mi dicevano».
Nel ’33 trascorrono ore in preghiera, in notti e giorni diversi, alcuni sconosciuti ecclesiastici che diventeranno famosi: il 52enne delegato apostolico in Bulgaria mons. Angelo Giuseppe Roncalli, futuro Giovanni XXIII. Il trentenne sacerdote fossanese Michele Pellegrino e il ventenne carmelitano genovese Anastasio Alberto Ballestrero: diventeranno cardinali arcivescovi di Torino. Il sacerdote olandese Jan Bernard Alfrink: sarà esponente di punta del Concilio, cardinale arcivescovo di Utrecht e primate d’Olanda. Il sacerdote Giuseppe Siri: sarà cardinale arcivescovo di Genova. E poi un ragazzino che «vestiva alla marinara»: Gianni Agnelli.
Don Peradotto entra nel Seminario minore di Giaveno nell’autunno 1939, alla vigilia della guerra: «Ci venne raccontato che la Sindone non è più a Torino. Null’altro. Sapremo nel 1946 dell’avvenuto trasferimento a Montevergine (Avellino) e il lo novembre il card. Fossati annuncia che la Sindone è tornata. Dopo la guerra seguono anni di discreto silenzio illuminato dalla Messa nella Cappella fra il doveroso ricordo e il parziale oblio. Mons. Jose Cottino, mons. Pietro Caramello e don Pietro Coero Borga mi fecero fare un salto di qualità con libri, riviste, informazioni di prima mano. Quando Pellegrino affida a una Commissione la ricognizione sul Lenzuolo il segreto è totale e il mio desiderio di carpire notizie va sempre deluso. Per la prima astensione televisiva (il23 novembre 1973 con la Sindone in verticale, n.d.r.) Pellegrino concesse alla Giunta del Consiglio Pastorale diocesano e ad altre persone un momento di preghiera e contemplazione».
Sull’incendio del 1997 Peradotto aggiunge: «Bisogna essere torinesi per capire la paura di perdere la Sindone. Ricordo quando fu messa in giro la voce che Roma voleva la Sindone per una breve ostensione. Migliaia di firme pervennero in Curia per scoraggiare l’operazione con il timore che non fosse restituita. Ricordo ancora il gelo della città all’udire nel 1988 le parole dell’arcivescovo Ballestrero che annunciava un esito infausto per la datazione con il C14».