Nei secoli XV-XVI, in Europa e in Piemonte divampano le epidemie di peste. Quella del 1630 – della quale scrive Alessandro Manzoni ne «I promessi sposi» – dopo la peste del 1598-99, colpisce varie città del Piemonte, tra cui Torino, che ha 30 mila abitanti. Secondo gli studi di Piero Castiglioni, il capoluogo ha 40 mila abitanti nel 1400; 20 mila nel 1560 e 36.649 nel 1631: alla fine si contano 8-11 mila morti, un terzo della popolazione.
Il Nord Italia è nel pieno della «guerra dei Trent’anni»: iniziata nel 1618 come un conflitto religioso che oppone Stati cattolici e protestanti nel Sacro Romano Impero degli Asburgo, si trasforma presto in una guerra tra le potenze europee. In questo quadro si inserisce la seconda «guerra di Successione» del Monferrato, che vede i Savoia schierati con spagnoli e imperiali, contro i francesi. Ilconflitto si concludecon i1 trattato di Cherasco stipulato il 6 aprile 1631 dal duca Vittorio Amedeo I; il cardinale Jules Raymond Mazarin, principale ministro di Francia; i rappresentanti del Sacro Romano Impero; Mantova e Spagna.Ai Savoia sono riconosciute Trino e Alba ma devono cedere Pinerolo ai francesi. Da Lione il 28 gennaio 1630 parte il cardinale Armand-Jean du Plessis di Richelieu, primo ministro di Luigi XIII, re di Francia, per portare la guerra in Piemonte.
Così il contagio, portato dalle truppe francesi e tedesche, dal 1629 dilaga in Savoia e in Italia: Chiomonte, Susa, Chiusa di San Michele, Torino e dintorni. Nel capoluogo l’epidemia iniziail 6 gennaio 1630 con il «paziente zero», il calzolaio Franceschino Lupo. Il protomedico Giovanni Francesco Fiocchetto ne stende una cronaca nel «Trattato della peste etpestifero contagio di Torino» stampata nel 1631. Il 5 luglio 1632 si svolgela processione votiva dei consiglieri comunali da Palazzo Civico alle sette chiese cittadine, tra cui Monte dei Cappuccini, Consolata, Duomo dove consegnano all’arcivescovo Antonio Provana di Collegno «il voto d’argento a suo tempo decretato dalla città». Ringraziano Dio per aver esaudito la preghiera: «A peste, bello et fame liberet nos Deus omnipotens. Dalla peste, dalla guerra e dalla fame ci liberi Dio onnipotente» come c’èsul frontespizio del verbale del Consiglio comunale del 1630.
Torino prende drastici (ma inutili) provvedimenti del caso: le porte della città sono sprangate;alle persone malate e/o sospette è imposta la quarantena; tutti si dotano di erbe varie. Acqua fresca che non ferma il contagio, per il quale non esisteantidoto se non la fuga. Ed è quello che fanno Vittorio Amedeo I, la famiglia ducale, la corte, i vertici politici-amministrativi. Rimangono in città i consiglieri comunali guidati dal sindaco Giovanni Franceso Bellezia, che è anche professore di Diritto all’Università; il medico Fiocchetto; i sacerdoti e i religiosi che assistono malati e moribondi nei lazzaretti e nelle case.
Annota don Franco Ferro Tessior, per tanti anni parroco di Rivalta, nel pregevole volume «Rivalta di Torino. 1000 anni di storia», Alzani, Pinerolo (Torino), 1991, dopo attente ricerche negli archivi comunali e parrocchiali: «Nelle campagne, la solita fame: le cronache ricordano che molti muoiono d’inedia, che le semine sono impedite dal continuo passaggio delle soldatesche e che i contadini abbandonano la tetra. Si susseguonoannate di scarsa produzione e aumentano i prezzi in modo esorbitante. Preceduta da un generale impoverimento che indebolisce le resistenze dell’organismo si diffonde la peste bubbonica detta anche “del carbone”, mentre i preti la chiamano “flagellum Dei”». Aggiunge: «La scienza non offre mezzi per stroncare il morbo e i medici, che dovrebbero assistere la popolazione, spesso fuggono oppure si fanno pagare ad altissimo prezzo, oppure non si accostano neppure all’ammalato e di conseguenza neppure ai sani. Anche per loro ci sono prescrizioni tassative: indossano vesti di tela cerata, portano una maschera dal lungo naso in cui ripongono rosmarino o fiori di tiglio e, a indicare la propria attività, tengono in mano una bacchetta con in cima una piccola croce. Entrano nella casa dell’appestato, stanno in piedi, cercano di non sfiorare né mura né mobili e interrogano l’infermo succintamente, al massimo gli tastano il polso. Fanno in modo di venirsene via al più presto. Ricompaiono i monatti o “monacci”, odiatissimi, non solo per il macabro lavoro, ma anche per essere, non raramente, individuiviolenti e crudeli. Gli untori? Sono poveri dementi che giungono adautoaccusarsi e che diventano colpevoli. La tortura fa il resto. I processi hanno una finalitàpolitica. Il Piemonte è desolato: interi borghi sono segregati; proibiti assembramenti, processioni, adunanze e convegni; ai familiari degli appestati giunge l’ordine di consegnare le “robe” degli ammalati, destinate al fuoco».
E Rivalta? Risponde l’ex arciprete Ferro Tessior: «Deduciamo la situazione dall’archivio parrocchiale – in quello comunale non abbiamo trovato alcuna indicazione – il quale però è incompleto: nel libro dei defunti abbiamo soltanto gli atti di morte dal 1° gennaio al 13 ottobre 1630. Ma è più che sufficiente per illuminare sulla tragica situazione. Il numero dei morti: gennaio 6; febbraio 4; marzo 5; aprile 6;maggio 4; giugno 3; luglio 26; agosto 36; settembre 130; i primi 13 giorni di ottobre 45. Per un totale di 265 morti: quindi possiamo presumere oltre 300 morti nell’anno, con le punte massime in agosto, settembre e soprattutto – presumiamo – ottobre. Abbiamo alcuni atti che parlano esplicitamente di francesi. E abbiamo tutta una serie di decessi che coinvolgono intere famiglie. Muoiono anche, tra gli altri, due sacerdoti: mons. Giulio “qual era magister delli figli del sig. Antonio Morra” e il “prete TomàVugeto di Vilos” in Francia il 28 agosto; muore anche il farmacista (“speziaro”) Antonio Maria Anso il 25 agosto e il figlio Francesco il 3 ottobre.Si può tranquillamente supporre che la popolazione di Rivalta, con la peste del 1630, si riduce di almeno un terzo».