Alzi la mano chi non è d’accordo sugli obiettivi generali del nuovo Governo, il Conte bis. Difficile dissentire dalla promessa di rilanciare l’Italia, ma all’atto pratico? I programmi di Governo sono sempre generici, non potrebbe essere diverso; poi però arrivano i piani esecutivi ed è
su quelli che valuteremo. Qui qualche spunto per passare dalle parole ai fatti.
Una trentina sono i punti nei quali il documento si articola, la lettura dei quali induce a riflettere e a porsi alcuni interrogativi. Molti tra essi mirano a identificare linee di azione, in larga parte riferite ad esigenze certamente presenti nel Paese, per rispondere alle quali occorre fare uscire gli obiettivi individuati dall’atmosfera delle intenzioni per divenire perseguibili in concreto attraverso precisi interventi materiali. Interrogativi sul ‘come’ e sul ‘quanto’ si accompagnano ad ogni passo della lettura dei punti indicati nel programma pur nel condividere le finalità sulle quali essi si basano.
Così avviene per le misure di sostegno alle famiglie e ai disabili, il perseguimento di politiche per evitare l’incremento dell’Iva, per l’emergenza abitativa, le misure di riduzione della complessità burocratica e di semplificazione amministrativa, il rafforzamento degli incentivi per gli investimenti privati, nonché l’aumento delle dotazioni a favore della scuola, dell’università, della ricerca e del welfare.
Alzi la mano chi non è d’accordo su tali finalità. Che tipo di azioni occorre però intraprendere e quante risorse devono essere messe in campo affinché esse non restino sogni nel cassetto? Di più, come tali risorse possono essere reperite?
In modo corretto è posta l’attenzione sulla situazione problematica del sistema industriale del nostro Paese sofferente di una decennale scarsa dinamica della produttività dalla quale deriva la bassa crescita della produzione, oggi documentata, dopo il rapporto Ocse, anche dall’Istat in modo netto e impietoso. In chiave risolutiva sembra adombrarsi la possibilità di contare sulla presenza di unità economiche di piccola e media dimensione (settori artigianali, design, manifattura) atte a consentire flessibilità nei processi e adesione alle richieste del mercato. Ora non v’è dubbio alcuno sulle potenzialità della dimensione imprenditoriale minore e sui benefici da questa arrecati al benessere italiano, ma v’è altrettanta certezza che il cambiamento radicale di efficienza del quale il Pese abbisogna può derivare soltanto dall’innovazione tecnologica radicale quale può essere resa possibile dall’impiego adeguato di risorse nella ricerca pubblica e privata e quindi, per quest’ultima, dalla presenza della grande impresa.
Istituzione questa da anni sempre meno presente nel nostro apparato produttivo, anche a causa della carenza di adeguate infrastrutture, senza le quali l’incidenza dei costi è spiazzante rispetto alle economie che ne dispongono.
In proposito il programma non sembra cogliere le urgenze che ostacolano l’attività produttiva nazionale per fare cenno a scelte infrastrutturali che preludono ad un Paese certamente desiderato dagli scriventi e in parte desiderabile, ma che può vedere la luce (forse) tra un notevole numero di anni allorché il tipo di vita quale sarà praticato non è neppure prevedibile.
Non si parla di apparati necessari ad ottimizzare i trasporti, dalle ferrovie, all’utilizzazione delle strade, agli aerei, alla navigazione, per sostenere una nuova strategia di crescita fondata sulla sostenibilità ottenibile mediante «investimenti mirati all’ammodernamento delle attuali infrastrutture e alla realizzazione di nuove (quali?), al fine di realizzare un sistema moderno, connesso, integrato, più sicuro, che tenga conto degli impatti sociali e ambientali delle opere».
Sembrano essere suggerite misure (quali?) atte ad incentivare prassi socialmente responsabili da parte delle imprese; a perseguire la piena attuazione della eco-innovazione; a introdurre un apposito fondo in grado di orientare, anche su base pluriennale, le iniziative imprenditoriali in questa direzione (con quali e quante risorse?).
Secondo il testo (sic) i piani di investimento pubblico dovranno avere al centro la protezione dell’ambiente, il progressivo e sempre più diffuso ricorso alle fonti rinnovabili, la protezione della biodiversità e dei mari, il contrasto ai cambiamenti climatici.
Viene enfatizzata la necessità di promuovere lo sviluppo tecnologico e le ricerche più innovative in modo da rendere quanto più efficace la «transizione ecologica» e indirizzare l’intero sistema produttivo verso un’economia circolare, tale da favorire la cultura del riciclo e dismettere «definitivamente la cultura del rifiuto».
Si sottolinea l’esigenza di introdurre una normativa volta a proibire, per il futuro, il rilascio di nuove concessioni di trivellazione per estrazione di idrocarburi. In proposito, il Governo si impegnerebbe a promuovere accordi internazionali intesi a vincolare anche i Paesi affacciai sul Mediterraneo ad evitare quanto più possibile concessioni per trivellazione.
L’impegno del Governo è inoltre rivolto a promuovere politiche volte a favorire la realizzazione di impianti di riciclaggio e, conseguentemente, a ridurre il fabbisogno degli impianti di incenerimento, rendendo non più necessarie nuove autorizzazioni per la loro costruzione. Viene specificato che rientrano in quest’ambito i progetti di «infrastrutturazione», di sviluppo economico, produttivo e imprenditoriale, in materia di turismo, cultura e valorizzazione delle risorse naturali, di ambiente, occupazione e inclusione sociale.
Non è chi non veda in queste dichiarazioni la desiderabile evoluzione verso un Eden, forse immaginabile, ma poco coerente con gli assilli del presente, tra i quali l’esigenza di generare condizioni tali da rendere desiderabile la condizioni di insediamento di operatori produttivi stranieri, disponibili a portare veri stabilimenti operativi e non soltanto ad investire capitali per acquisire maggioranze finanziarie tali da consentire di appropriarsi e portare fuori confini le unità aziendali. Ci si deve chiedere, con l’attuazione di questo tipo di politiche, quando saremo effettivamente liberi dai combustibili fossili e, se nel frattempo, dovremo lasciare andare sprecate le possibilità giacenti sotto i nostri mari invece di governarne con saggezza l’utilizzo, in un contesto di salvaguardia ambientale come in paesi non lontani si è dimostrato di poter fare? Ci si deve domandare quanti altri richiami dovremo ancora subire dalle autorità europee per emergenza rifiuti a Roma o Napoli e quanti treni carichi degli stessi rifiuti dovremo avviare verso i pochi comuni nazionali che hanno costruito termovalorizzatori o verso paesi esteri che del loro trattamento hanno fatto attività produttiva redditizia e coerente con il teleriscaldamento e quindi con la riduzione di gas serra.
Di fronte al programma e nei limiti nei quali è dato conoscerlo, dopo un primo momento di adesione a molte delle indicazioni programmatiche sulla base di principi condivisibili, quando si rifletta sul funzionamento giornaliero di un Paese con le sue urgenze e difficoltà, anche nascenti da volumi di produzione che si vanno riducendo e rendono più ardua la diffusione generale del benessere quale sarebbe desiderabile, s’avverte il bisogno di invitare chi vi ha posto mano ed energie a cercare di risolvere le urgenze dell’oggi prima di consolare chi si trova nel bisogno con la prospettiva di un orizzonte prossimo, magari fantastico, ma di là da venire.