Leggi razziali, 80 anni fa “l’autunno della vergogna”

Terribile anniversario – All’estate della vergogna segue l’autunno della vergogna: il 14 luglio 1938 il «Manifesto della razza», il 6 ottobre la «Dichiarazione sulla razza» del Gran Consiglio e il 17 novembre re Vittorio Emanuele III convalida le leggi razziali, anticamera dell’Olocausto

1947

Ottant’anni fa, all’estate della vergogna seguì l’autunno della vergogna: 14 luglio 1938 il «Manifesto della razza»; 25 luglio il Partito fascista pubblica il «Manifesto della razza»; 5 settembre «Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista»; 7 settembre «Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri»; 6 ottobre «Dichiarazione sulla razza» del Gran Consiglio; 17 novembre re Vittorio Emanuele III convalida le leggi razziali.

Il regio decreto legge 5 settembre 1938 n. 1390 dispone l’allontanamento di allievi e professori ebrei dalle scuole, l’espulsione degli ebrei stranieri e la spoliazione dei beni. Benito Mussolini il 18 settembre 1938 in piazza dell’Unità a Trieste attacca:  «L’ebraismo mondiale è un nemico irreconciliabile del fascismo». Al censimento del 1938 in Italia risultano 58.412 ebrei, di cui 48.032 italiani e 10.380 stranieri. L’asse Roma-Berlino porta i suoi frutti velenosi. Hitler considera gli ebrei di razza inferiore e nella «notte dei cristalli» (9-10 novembre 1938) fa saccheggiare i negozi ebraici r dare l3e sinagoghe date alle fiamme. È la «soluzione finale» per le razze non ariane: camere a gas nei campi di sterminio per ebrei e anche – e lo si dimentica facilmente – per zingari, handicappati, omosessuali, oppositori, avversari politici.

Palesemente Mussolini scimmiotta Hitler. Il «regio decreto per la difesa della razza», all’articolo 1 sancisce: «A qualsiasi ufficio o impiego nelle scuole di ogni ordine e grado, pubbliche o private, frequentate da alunni italiani, non possono essere ammesse persone di razza ebraica, anche se siano comprese in graduatorie di concorsi; né possono essere ammesse al conseguimento dell’abilitazione alla libera docenza». Gli ebrei dipendenti dello Stato sono licenziati ed esclusi da scuole private, banche, assicurazioni e gli studenti sono esclusi da scuole e università. Possono frequentare solo scuole riservate agli ebrei o create dalle comunità ebraiche; non possono possedere beni immobili superiori a 5.000 lire di valore catastale per i terreni e a 20.000 lire per le abitazioni. Già nel 1936 l’ordinamento dell’Africa orientale italiana introduce una divisione in base all’appartenenza razziale per infondere negli occupanti il sentimento di una superiorità.

Il 1° settembre 1939 la Germania invade la Polonia e a ruota l’Unione Sovietica ne occupa l’altra metà. Il 10 giugno 1940 Mussolini annuncia l’intervento a fianco dei tedeschi. Il conflitto – secondo le intenzioni e le promesse del fiihrer e del duce – finirà con una schiacciante vittoria dopo una «guerra lampo». Invece seguono cinque interminabili anni di eccidi e distruzioni.  La caduta di Mussolini il 25 luglio 1943 fa esplodere la speranza che la fine della guerra sia vicina. I preti suonano le campane, celebrare Messe di ringra­ziamento, cantano il «Te Deum». Ma la guerra continua  con lutti, bombar­damenti, fame, salari miseri, stipendi erosi dal carovita, mercato nero, fabbriche militarizzate. La sera dell’8 settembre 1943, dopo l’annuncio della resa, i tedeschi arrestano i soldati italiani e li trasferiscono in Germania e occupano il Centro-Nord per tenere il fronte lontano dal Terzo Reich.

A Torino i rastrellamenti germanici e repubblichini riempiono le carceri Nuove di partigiani, ebrei, perseguitati politici. Dal gennaio 1931 l’assistenza spirituale è affidata ai Missionari della Consolata che accompagnano alla forca 72 condannati. Ma per il loro zelo nel sostenere i partigiani detenuti sono odiati dai nazifascisti. Allora il cardinale arcivescovo di Torino Maurilio Fossati li sostituisce con i francescani: il loro convento di Sant’Antonio di Padova è a due passi dalle Nuove. «Il saio di San Francesco sta bene dietro alle sbarre» dice a padre Ruggero Cipolla che il 15 novembre 1944 entra in carcere come cappellano provvisorio. Ci resterà oltre mezzo secolo.

Nell’aiuto agli ebrei rifulgono l’arcivescovo Fossati; il segretario Vincenzo Barale; la religiosa sarda Giuseppina (Rosina) De Muro, figlia della carità e «angelo delle Nuove»; il salesiano don Vittorio Cavasin direttore del collegio di Cavaglià. Scrive lo storico Giuseppe Tuninetti: «Con il fascismo Fossati tenne la schiena diritta: non fu mai servile e protestò contro le prepotenze e violenze. Il regime lo punì  arrestando il segretario. La parola d’ordine, lanciata da Pio XII, era quella di aiutare e salvare gli ebrei. Fossati la fece propria».

Il 19 novembre 2015 a Ri­voli è consegnata la medaglia «Giusto fra le nazioni» alla memoria di Vincenzo Barale e di Vittorio Cavasin,  grazie alle testimonianze di tre ebrei, salva­ti quand’erano ragazzi. Su disposizione di Fossati, il segretario Barale accompagna i bambini al collegio salesiano di Cavaglià: due fratelli italiani e un bambino tedesco testimo­niano della correttezza dei salvatori che non tentano di convertirli né di battezzarli.

Barale rischia la vita. Il 3 agosto 1944 i fascisti lo portano in via Asti, poi nel braccio tedesco delle Nuove, infine nel domicilio coatto all’Istituto Sacra Famiglia di Cesano Boscone (Milano). Lo salva dal lager il cardinale arcivescovo di Milano Ildefonso Alfredo Schuster. Nel 1955 a Milano l’Unione delle Comunità israelitiche italiane gli conferisce la medaglia d’oro: «Accolse e protesse tutti gli ebrei che durante le persecuzioni si rivolsero a lui per aiuti e consigli. Attraverso inenarrabili pericoli trasse a salvamento, nascondendo o facilitando l’espatrio, singoli e fami­glie. Nemmeno in carcere interruppe la sua attività instancabile, illuminata dalla fede».

Nel febbraio 1946 suor Giuseppina De Muro, supe­riora delle Figlie della carità di  San Salvario, invia a Fossati una relazione: «Dopo l’8 settembre 1943 la nostra  resistenza all’oppressore, per proteggere i fratelli oppressi, inizia con l’occupazione tedesca del primo braccio: vi gettavano le loro prede parti­colari, di cui erano gelosissimi. Ciò era per noi tutte un cupo e assillante mistero». La disciplina è durissima: le recluse sono stipate in celle anguste e fatiscenti, non godono dell’ora d’aria, non possono seguire le funzioni religiose né ricevere pacchi e denaro da casa. Senza curarsi delle minacce delle SS, la suora si mette d’accordo con la Confraternita di San Vincenzo: fanno entrare in carcere indumenti e generi alimentari. Nel 1962 le assegnata la medaglia d’oro al merito della redenzione sociale e la comunista Unione Donne italiane la mimosa.

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