«Carluccio, intorno al 1941, alunno dei Gesuiti all’Istituto Sociale di Torino aveva recuperato l’”Indice dei libri proibiti” e spulciava la biblioteca paterna. Tutto Balzac era all’”Indice” e mio padre ne aveva l’intera collezione rilegata. Carluccio ottenne di buttare via questi e altri libri e li gettava nel Po, dopo che mia madre aveva tagliato il titolo sul dorso. Io lo accompagnavo e assistevo al lancio».
«Dopo molte ricerche trovò in una libreria vicino a casa una vecchia edizione della Bibbia in due volumi. Mi domando perché i padri spirituali che lo governavano non avessero mai soddisfatto questo suo desiderio».
Carluccio mingherlino e delicato
I due episodi rivelano la tempra di Carluccio, Carlo Maria Martini, gesuita, biblista di fama mondiale, cardinale arcivescovo di Milano (1979-2002), li racconta la sorella Maris Martini Facchini nel gustoso libretto autobiografico «L’infanzia di un cardinale. Mio fratello Carlo Maria Martini. Ricordi di vita familiare» (Ancora).
L’8 maggio 1923 a Vercelli l’ingegnere Leonardo Martini di Torino sposa Olga Maggia da una famiglia di lanieri biellesi. Il 31 maggio 1924 nasce Francesco; il 15 febbraio 1927 Carlo Maria Filippo («Carluccio»); il 26 dicembre 1934 Maria Stefania Elena Rita: «Di quel giorno mi è rimasto un biglietto indirizzato alla “Signorina Maria Stefania Martini” con il benvenuto di Carluccio. Per Francesco, litigioso e irruento, ogni occasione era buona per fare la lotta, rincorrerci e picchiarci. Noi scappavamo. Una volta prese a cuscinate Carluccio. Francesco e io eravamo dotati di buon appetito. Carluccio invece era mingherlino e delicato; a tavola era lento e schizzinoso quel tanto consentito dall’educazione. Anche l’immancabile risotto lo affrontava in punta di forchetta, trovando tante pietrine e scarti che allineava sul bordo del piatto. Per lui, spesso convalescente, la mamma sbatteva l’uovo a merenda con la marsala. Il rosso d’uovo, con qualche goccia di limone e un pizzico di sale, completava la cura».
Casa Martini è in via Cibrario 9 e il 25 settembre 2015 il sindaco Piero Fassino appone una targa-ricordo. Poi il trasferimento in via Cibrario 10 in un alloggio più grande: camera dei ragazzi, tinello-camera di Maris, studio di papà. La parrocchia è l’Immacolata Concezione e San Donato, la prima chiesa al mondo dedicata a Maria concepita senza peccato il 30 gennaio 1855 dall’arcivescovo mons. Luigi dei marchesi Fransoni due mesi dopo che Pio IX l’8 dicembre 1854 aveva proclamato il dogma.
Un parroco all’antica raccolto e fervente
Nel dicembre 2005, nel 150° della chiesa, il card. Martini ricorda la parrocchia della sua infanzia e il suo battesimo in casa: «Conservo un vivo e grato ricordo del parroco degli anni Trenta, mons. Emilio Feliciano Vacha, prete all’antica, raccolto e fervente. Mia mamma aveva una grande venerazione e lo considerava un santo. Si sentiva legato ai miei genitori perché era stato nominato parroco proprio nel tempo in cui erano venuti ad abitare in parrocchia. In casa nostra, in particolare per la visita pasquale, lo accoglievamo con gioia e con riverenza perché ci incuteva timore. Non era facile capire quanto diceva perché mangiava un po’ le parole e si esprimeva con un certo affanno, come se avesse il fiato corto. Ma quel poco che intendevamo ci bastava per capire che era un uomo di Dio e che ci stava dicendo cose importanti. Alla fine ci lasciava un piccolo uovo di Pasqua. Ricordo soprattutto le Messe in parrocchia, in particolare al primo venerdì del mese, quando la mamma ci faceva alzare presto per essere poi in tempo a scuola. Mi impressionava un grande affresco sulla parte sinistra dell’altare: San Francesco che riceve le stimmate, Rammento la fatica nel decifrate la scritta latina, che imparai a memoria e che compresi quando studiai il latino. In fondo a sinistra, c’era il battistero dove rinnovavo le mie promesse battesimali. Rimasi un po’ disturbato quando seppi che, essendo il giorno del mio battesimo un freddissimo giorno invernale, il parroco venne a battezzarmi in casa». Dal numero 41 del registro parrocchiale la data del battesimo risulta il 22 febbraio 1927. Mons. Emilio Feliciano Vacha, canavesano, fu prima parroco di San Francesco al Campo. Grande devoto di San Francesco, costruisce la chiesa parrocchiale Stimmate di san Francesco in corso Umbria.
Interprete dei tedeschi in un interrogatorio
Nel 1940 il trasferimento in via Sineo: la vista sul Po e sulla collina è splendida, il fiume limpido, i pescatori, la trattoria «Ai pesci vivi». Ricorda Maris: «I ragazzi frequentavano in divisa i sabati fascisti organizzati dal professor Buffa, insegnante di ginnastica del Sociale e io ero “figlia della lupa”. Il 10 giugno 1940 in un’atmosfera silenziosa e sbigottita, ascoltiamo da un apparecchio radio gigantesco Mussolini annunciare l’entrata in guerra. A fine estate 1942, sfollati a Orbassano, arriva un camion di soldati tedeschi e preleva Carluccio perché faccia da interprete nell’interrogatorio di un orbassanese: conosceva bene il tedesco per averlo studiato con Frau Geloso. In piazza c’erano le giostre di Carnevale. Una sera Carluccio cercava di darsi la spinta per fare il giro completo ma, mingherlino com’era, ogni tentativo era vano. C’era un soldato tedesco che volava e calamitava l’attenzione delle ragazze che lo applaudivano. La mamma era mortificatissima ma si consolava: “Vorrei vedere quello là alle prese con una traduzione dal greco!”».
Arriva il tempo della grande scelta. Carluccio, sempre un libro in mano, terminato il liceo – segue gli ultimi due anni in uno, sfollato con il «Sociale» a Gozzano (Novara) – nel luglio 1944 affronta la maturità classica come privatista al «D’Azeglio» di Torino. La professoressa Arici, famosa per la severità, lo abbraccia commossa. Narra la sorella: «Nella villa di Orbassano si ritirava in giardino sotto una grande quercia, con una sedia e un tavolo di vimini e una mole incredibile di libri. Quando giocavo con le mie amichette la mamma ci raccomandava di non fare rumore “perché Carlo deve studiare”. Avevo 9 anni quando, nel luglio 1944, comunicò la decisione di diventare gesuita. Parlò con papà della sua vocazione. La mamma sapeva da tempo della sua decisione. Venne il superiore provinciale dei Gesuiti a parlare con Carlo e con i genitori. In casa regnava un’atmosfera quasi sospesa. La mamma visse l’estate come la “Madonna del sabato santo”, contando i giorni e le ore».
Il 25 settembre la partenza per il noviziato dei Gesuiti
Domenica 24 settembre 1944 «andammo alla Messa in parrocchia nel banco numero 6, con la scritta “Martini”: la mamma ci ripeteva che il nome sul banco non significava un privilegio né che il posto fosse riservato. Ricordo il canto a fine Messa: “Mira il tuo popolo, o bella Signora”. Francesco cercava di tenerci allegri facendo il burlone. Carlo aveva un’espressione serena. La mamma lo rimirava come se fosse l’ultima volta. Papà aveva il viso corrucciato e un’aria mogia. Lunedì 25 settembre 1944 sveglia alle 5, mamma e Carluccio presero il trenino Orbassano-Torino e poi, sotto i bombardamenti, quello per Cuneo dove Carlo avrebbe fatto i due anni di noviziato e dove mise a dura prova la vocazione, con i compagni, patendo il freddo e la fame. Io ciondolavo assonnata, finché Carlo mi abbracciò dandomi una carezza: “Torna a dormire”. Poi partì per il destino che aveva scelto, senza girarsi indietro».
Il 25 aprile 1945 la gente festeggia la fine della guerra e papà Leonardo fa 80 chilometri in bicicletta per andare a Cuneo ad annunciare al figlio novizio la fine della guerra. Nel 1948 a Chieri Carlo ha la polmonite ma è in clausura. Mentre papà e Francesco possono andare a trovarlo, la mamma non può entrare. Racconta Maris: «Una mattina, mentre andavo a scuola, dal tram vidi mia madre, ferma all’angolo. Francesco era andato a prendere l’auto e la mamma lo aspettava per andare a Chieri. Abbracciava un cuscino con la federa bianca, aveva un’aria disperata. Non poteva vedere il figlio ammalato, poteva solo aspettare in parlatorio mentre Francesco portava al fratello il cuscino che certamente era più morbido di quelli del convento: quel cuscino era l’unico conforto che la mamma poteva offrire al figlio».
Trascorre le estati all’estero per imparare le lingue. A Chieri il 13 luglio 1952 Carlo è ordinato sacerdote. I superiori lo mandano a Klagenfurt e poi a Vienna. Nel 1963 partecipa a un convegno teologico negli Stati Uniti: rimane colpito dalla partecipazione di migliaia di persone, dalle code per accreditarsi «e dal fatto che i partecipanti avevano scarsa conoscenza della teologia».
Allievo di Agostino Bea e Stanislaw Lyonnet
La sorella apre squarci anche sugli studi e sull’insegnamento a Roma. Giovane studente al Biblico a Roma «si recava con una riverenza e trepidazione dal cardinale Agostino Bea e non solo era accolto ed ascoltato paternamente, ma quando stava per uscire gli rivolgeva un’ultima urgente domanda e il cardinale, pur stanco, trovava il tono e la parola giusta per consentire all’interlocutore di giungere da solo al cuore del problema. Un altro docente influente fu padre Stanislaw Lyonnet, che ammiravo molto per la sua attività nel Movimento Rinascita Cristiana, di cui facevo parte. Dovendo portare una riflessione su un brano di Vangelo pensavo di farmi aiutare da mio fratello, che però mi ha risposto che dovevo fare da sola».
Inoltre mamma Olga «lo riforniva di maglie di lana su misura, tutte marchiate “MC 265”, identificativo per il bucato della casa. Ma Carluccio metteva nel guardaroba comune tutto quello che riceveva. La sua camera si affacciava su piazza della Pilotta, ma era clausura e nessuno di noi l’ha mai vista. Le docce e il resto, come in tutti i conventi, erano in fondo ai corridoi. Nelle sue visite alla famiglia non vestiva gli abiti del “professore” ma ci rendeva partecipi della sua quotidianità raccontando episodi e aneddoti divertenti. Per esempio la sua preoccupazione nel provvedere agli studenti americani il prosciutto, un cibo che per noi era da ricchi. Quando andavamo a trovarlo diceva Messa alle 7 e poi ci ritrovavamo alla sera al ristorante dove abbiamo scoperto la cucina romana. Carlo apprezzava molto forse perché il cibo del convento era poco appetitoso. Come rettore ha dimostrato di avere il “mal della pietra” come nostro padre. Ha promosso parecchi lavori di ristrutturazione, con l’aiuto di papà: questo lo ha reso molto più sicuro di sé».
Quella volta che collabora con il regista Roberto Rossellini
Padre Carlo Maria Martini collabora anche con La Rai come racconta Paolo Martini, su «Sette» («Corriere della Sera», 1° marzo 2014): «Fu chiamato a collaborare nel 1969 con Roberto Rossellini agli “Atti degli apostoli”. Un episodio tra i più divertenti della storia orale della Tv, stando al racconto di Luciano Scaffa, capo-progetto Rai. Martini fu convocato per disperazione dalla Rai all’ultimo momento per correggere le scivolate che erano scappate al regista Rossellini. Si chiuse in moviola a sovrintendere a un secondo doppiaggio, parola per parola, ponendo la massima attenzione a non stravolgere il labiale degli attori».
Nel 1976 il biblista conduce la rubrica religiosa del sabato pomeriggio sulla Rai commentando il Vangelo domenicale con un linguaggio semplice, fluido, efficace. Passa agevolmente dal silenzio del convento alla cattedra del Pontificio Istituto Biblico come professore di critica testuale, da Gerusalemme alle periferie romane con la Comunità di Sant’Egidio, a Lublino in Polonia invitato dall’arcivescovo di Cracovia Karol Wojtyla. La sua vita è fatta di incessante studio ed è espressa in numerose attività: teologo, biblista, conferenziere, predicatore di esercizi spirituali, «illuminato mediatore politico, persuasivo con la forza del pensiero e della parola. Nell’autunno 1978 da Roma ci dice per telefono con un tono pacato e deciso: “Ci hanno preannunciato attacchi terroristici contro cose o persone di chiesa. Mi raccomando: né trattative né riscatto”. Nella congregazione generale dei Gesuiti del 1974 padre Jorge Mario Bergoglio, superiore dei Gesuiti argentini, futuro Papa Francesco, lo ricorda come mediatore-innovatore».
Dal 1979 arcivescovo metropolita di Milano
Il 29 dicembre 1979 la grande svolta. Giovanni Paolo II lo sceglie come arcivescovo metropolita di Milano. La sorella rammenta la sua consacrazione episcopale, da parte di Papa Wojtyla in San Pietro, il 6 gennaio 1980: «Aveva le scarpe bucate. Me ne sono accorta quando i vescovi si sono prostrati di fronte al Papa. Dopo la funzione gli feci notare la faccenda delle scarpe. Mi rispose che le scarpe dovevano essere comode, così non avrebbe avuto male ai piedi e che con la suola un po’ frusta non avrebbe corso il rischio di scivolare. Poi mi puntò addosso i suoi occhi azzurri, portò la mano verso l’alto: “Se tu guardassi verso il cielo, certe cose non le noteresti”».
Fa l’ingresso il 10 febbraio 1980: «Per strada la gente lo accoglie festante, piazza Duomo è gremita. Mi commuovono ‘incedere sciolto, lo sguardo, la gestualità e le pause che vedo e sento nel primo incontro con i milanesi che ancora non lo conoscevano».
Anche una nota dolente: «Certo lo facevano soffrire taluni movimenti che gli tenevano lontani i giovani preti ambrosiani. In un articolo su “La Stampa” (15 ottobre 2017) , don Juliàn Carron “riconosce l’amarezza per non avere trovato il modo più adeguato di collaborare alla sua ardua missione”. Posso spiegare a don Carron che il suo predecessore aveva messo una distanza siderale tra i preti del suo movimento e il vescovo di Milano. Ancora recentemente l’ho constatato, quando sono andata a far dire una Messa per mio fratello in una parrocchia dove avevamo abitato vent’anni, retta da un parroco di Cl».