Il clamore mediatico suscitato dalla sentenza sul suicidio assistito, così come le ricorrenti voci che preludono ad una legge sull’eutanasia, richiamano l’attenzione dell’opinione pubblica sulle questioni di fine vita. Nell’immaginario collettivo sta maturando l’idea che l’unico modo per non soffrire, quando la vita volge al termine, sia quello di ricorrere a pratiche eutanasiche. Nulla di più errato e lontano dalla realtà. La Chiesa cattolica e numerosi operatori sanitari si sono dimostrati, non a caso, contrari ad ogni forma di collaborazione al suicidio nella persuasione che è moralmente doveroso soccorrere chi è in difficoltà. Questa convinzione è stata considerata da più parti una forma di «follia vitalista», un «insulso crudele accanimento».
Un attento esame delle dichiarazioni contrarie al suicidio assistito evidenzia, però, che non sono motivate dall’intenzione di somministrare trattamenti che non arrecano beneficio alla salute del malato. Sono, infatti, animate dalla convinzione che è doveroso sospendere le terapie che, non potendo più favorire il miglioramento del quadro clinico, provocano solo effetti collaterali negativi e un prolungamento precario e penoso della vita. Sono altresì determinate nel sostenere che non esiste il diritto di collaborare alla morte di chicchessia e che è doveroso accompagnare con la necessaria palliazione chi è nella fase della terminalità.
L’articolo integrale dei teologi morali Enrico Larghero e Giuseppe Zeppegno è pubblicato su La Voce e il Tempo in edicola.