Nella lotta contro la mafia «ci siamo anche noi. La Chiesa italiana ci sta. Potrebbe sembrare banale ribadirlo davanti a voi che conoscete la molteplicità di progetti che la Cei porta avanti con “Libera”. La Chiesa ci sta. Ci stanno i singoli credenti, tanti preti e vescovi, tante realtà ecclesiali».
L’insolita affermazione, ribadita due volte, è di mons. Nunzio Galantino all’assemblea di Libera a Roma «Contromafiecorruzione» che si è tenuta dal 2 al 4 febbraio. Il segretario dell’episcopato italiano contesta la sintesi dei lavori del «Tavolo 13» degli Stati generali lotta alle mafie di Milano del 23-24 novembre 2017. Quel gruppo, coordinato da Alberto Melloni, aveva come tema «Mafia e religione» e fece – accusa Galantino – «affermazioni (banalità) non documentate, scritte con buona dose di arroganza e sostenute da preconcetti e mancanza di conoscenze dirette». Quelle conclusioni annoveravano «l’estraneità delle Chiese, o almeno della Chiesa cattolica, dalla lotta alle mafie che è condotta solo dalle istituzioni dello Stato. È necessario ricordare alle Chiese che non possono dichiararsi estranee alla sofferenza del loro popolo».
A queste conclusioni Galantino non ci sta e attacca: «A fronte di colpevoli ritardi del passato, oggi posso esibire storie, nomi e fatti concreti che hanno tanti di voi come protagonisti. Storie, nomi e fatti che, non da oggi, vedono uomini e donne di Chiesa impegnati in strada mettendoci faccia e impegno necessari perché non si sentono estranei alla sofferenza del loro popolo». Aggiunge con una nota di dolente sarcasmo: «Forse agli estensori del Tavolo 13 non dicono niente i nomi di don Italo Calabrò, don Peppe Diana, don Pino Puglisi e tanti altri. Sono ideologismi sterili. Bisogna vedere dove c’è l’impegno e riconoscerlo, dove vi sono mancanze e denunziarle. Ma lo strabismo ideologico non serve a nessuno». È il caso di ricordare che i tre preti citati sono vittime delle mafie al Sud.
Galantino prosegue: «La Chiesa ci sta. Lo ribadisco con semplicità e umiltà ma anche con decisione». Insiste sul carattere evangelico della presenza nella lotta alla mafia perché «vedo e sento parole che tendono a derubricare l’impegno di uomini e donne di Chiesa e la loro presenza per combattere la mafia a impegno e presenza marginali rispetto al Vangelo. Secondo alcuni impegno e presenza sono espressione solo di sensibilità particolari o personali. Rivendico il carattere e la motivazione fortemente evangelici a fianco di chi non ce la fa. E ditemi voi se intere famiglie, donne e uomini che si vedono confiscare la libertà e la dignità di vivere una vita normale dalla prepotenza della mafia non sono tra coloro che proprio non ce la fanno».

Analoghi concetti espresse il torinese don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e di Libera, in risposta alle minacce di Totò Riina dal carcere di massima sicurezza. «La mia motivazione – disse in sostanza – sta unicamente nel Vangelo.
Ne era convinto Paolo VI: «I poveri ci appartengono per diritto evangelico». Lo ha ribadito Papa Francesco: «La nostra Madre Chiesa guarda in particolare a quella parte di umanità che soffre e piange perché sa che queste persone le appartengono per diritto evangelico. Per diritto e per dovere evangelico perché è nostro compito prenderci cura della vera ricchezza che sono i poveri». Lo hanno affermato i vescovi italiani nella sessione invernale del Consiglio permanente del 22-24 gennaio 2018: «Prende volto una Chiesa che, quando si fa interprete del dramma dei giovani disoccupati e di quanti sono esclusi dal mondo del lavoro; quando dà voce alle famiglie, provate da una precarietà che spesso si trasforma in povertà; quando interviene a difesa della vita; quando sostiene la centralità della scuola; quando si pone a servizio del malato o del migrante, la Chiesa lo fa animata da un’unica ragione: il mandato evangelico diventa annuncio, testimonianza e impegno di giustizia e solidarietà, compassione, comprensione e disponibilità».
Anche Libera collabora con il «Progetto Policoro» – tra i fondatori c’è il prete torinese don Mario Operti – sostenuto dalla Cei: venne pensato nel 2011 nel 20° della nota pastorale Cei «Educare alla legalità» (1991). «Policoro» è giunto alla settima annualità (2012-2018): 156 esperienze di riutilizzo sociale in 47 diocesi; decine di Caritas, associazioni, cooperative, gruppi scout, parrocchie su 735 realtà sociali gestiscono beni confiscati alla mafia.
Nell’intervento conclusivo don Ciotti afferma: «La corruzione è la più grave minaccia della democrazia; la malattia dell’avere corrode la radice dell’essere e della vita; è una infezione che prepara il terreno alle mafie. Il metodo corruttivo e la violenza in guanti bianchi sono il metodo prevalente. Non tutti i corrotti sono mafiosi ma i criteri per valutare la mafia vanno rivisti, aggiornati e approfonditi. C’è una grande campagna culturale da fare, perché è ancora diffusa l’idea che la corruzione e le mafie siano mondi diversi e separati e che il reato di corruzione sia molto meno grave di quello mafioso, una bagatella giustificabile con l’eccesso di burocrazia e pressione fiscale. La corruzione va combattuta alla radice con la formazione delle coscienze. Educare vuol dire trasmettere un’idea di bene e di giustizia».
Anche Francesco, incontrando la Consulta nazionale antiusura, affronta «la piaga molto diffusa e sommersa» nella quale la mafia sguazza: «L’usura indebolisce le fondamenta di un Paese che non può programmare una seria ripresa economica con tanti poveri, tante famiglie indebitate, tante vittime di reati e tanti corrotte». In ventisei anni la Consulta ha salvato dall’usura oltre 25 mila famiglie. Bergoglio rimarca: «L’usura umilia e uccide, come un serpente strangola le vittime che bisogna sottrarre ai debito fatto per sussistenza o per salvare l’azienda educando. Alla base della crisi economica c’è sempre la concezione di vita che pone al primo posto il profitto e non la persona. In nome del denaro non si possono uccidere i fratelli».