
IL VANGELO
Quando Giuda fu uscito [dal cenacolo], Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito.
Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri.
Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».
IL COMMENTO
Il tempo che stiamo vivendo, con le sue ansie e le sue angosce, sembra proprio contraddire il Vangelo di oggi: «Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi».
Quando le popolazioni, i bambini, gli anziani, i malati sono oggetto di violenza indiscriminata e brutale, questo «comandamento» può sembrare l’affermazione di un’utopia pensata da un’anima candida e, soprattutto, pare non incidere affatto nella nostra vita quotidiana.
È una proposta praticabile? Gesù conosce bene i figli di Caino, ne sarà la vittima consapevole, e proprio per questo ci consegna il comandamento «nuovo». Nuovo perché l’amore universale, senza limiti, oltre gli ostacoli, mai nessuno l’aveva preteso prima e nuovo perché nuovo è il modello, Gesù stesso. Si tratta di capire «come ci ha amati. Questo «come» attraversa tutta la vita pubblica di Gesù, trova il suo culmine sulla croce e si concretizza nel grido dell’abbandono: «Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Gesù si abbandona consapevolmente al Padre e, svuotandosi di sé stesso per accoglierlo, diventa una cosa sola con lui. È solo, appare fallito, derelitto, inutile, scartato e scioccato, ma il non senso del dolore con lui trova un senso. In quel vuoto si fa nulla e in quel nulla può accogliere il Tutto che, in risposta, lo farà risorgere.
Le conseguenze sono grandi anche per noi nella vita quotidiana. Accogliere l’altro che abbiamo di fronte vuol dire fargli spazio e per farlo dobbiamo rinunciare a qualcosa di noi. Non si tratta di avere genericamente una predisposizione benevola verso l’altro, ma di perdere qualcosa di noi a favore di qualcuno che magari neanche conosciamo. Non è stato facile neanche per Gesù. Il suo grido esprime il dolore e l’angoscia di una separazione. E anche fiducia e un amore smisurato. È fatica rinunciare a un pezzo di noi stessi. Guardare agli emarginati perché senza lavoro, agli sfiduciati, a chi ha perso una prospettiva nella vita, a chi subisce una separazione in famiglia, a chi ha perso una persona amata vuol dire dare un’identità a queste persone, guardarle negli occhi e dare loro un nome e poi farsi uno con ciascuno di loro, portarli nella nostra vita. E ciascuno di loro è un Gesù che ci chiede di accoglierlo.
E uno dopo l’altro, accogliendoli tutti, alla fine cosa resterà di noi? Potremo forse dire con san Paolo: «Non sono più io che vivo in Cristo, è Cristo che vive in me», perché lo avremo accolto sempre e la sua continua presenza in noi piano piano ci trasforma in lui. E anche per noi il non senso del dolore, il nostro come quello delle nostre sorelle e fratelli, accogliendolo in chi ci chiede aiuto, troverà un senso. È il punto di contatto con ogni persona. Potremo dirgli: sono contento, perché in qualche modo vivi in me e questo non ci farà stare fermi nel dolore. E oggi più che mai abbiamo bisogno di uscire dal dolore patito da chi deve subire una guerra, da chi ne teme un coinvolgimento generale o da chi subisce semplicemente una separazione di qualche genere, perché il dolore, come tutte le nostre fragilità e anche la nostra morte, non è l’ultima parola. L’ultima sarà sempre «amore».
Tutto ciò richiede una profonda conversione personale. Ma è sufficiente? Abbiamo bisogno di una comunità che ci aiuti a crescere nell’amore e nell’amore (un amore senza retorica, sapendo quanto le comunità siano litigiose) anche creare comunità. È la comunità a farci crescere. Senza comunità non c’è chiesa. Una comunità che si riconosce nell’amore è un esempio propositivo anche per tutta la società, che resterà laica, ed è un bene che resti laica, ma che dal nostro esempio (si riconoscono perché si amano tra di loro) può trovare le ragioni della solidarietà, del non lasciare indietro nessuno, nel trovare opportunità con cui risolvere pacificamente le controversie. Resta ancora da verificare se viviamo davvero questa realtà proposta da Gesù o se tutto resta relegato al livello delle buone intenzioni. Ciascuno, e ciascuna comunità, è bene che faccia questa verifica. E subito dopo chiediamoci di quale modello di comunità stiamo parlando. Ma questa è un’altra storia.
diac. Roberto PORRATI
parrocchie di San Mauro: S.Cuore, S. Maria di Pulcherada, S.Anna e S.Benedetto