«Ora sono pochi mesi»: nel giorno della «marcia su Roma» (28 ottobre 1922, un secolo fa) Papa Pio XI chiede ai vescovi italiani, con una lettera apostolica, di adoperarsi perché «venga ristabilita la pace».
La morte di Benedetto XV e l’elezione di Ratti-Pio XI
All’inizio del 1922 Benedetto XV si ammala gravemente: un’influenza degenera in polmonite. Spira il 22 gennaio, con l’Italia ingovernabile e la violenza fascista già dilagante. Secondo gli storici, in Italia il lutto non ha precedenti per la morte di un Papa con le bandiere a mezz’asta sugli uffici pubblici. Il 2 febbraio 1922 si riunisce il Conclave con 53 cardinali – tra i quali per la terza volta l’arcivescovo di Torino Agostino Richelmy – e il 6 febbraio, al quattordicesimo scrutinio, con 42 voti (6 più del quorum) elegge il cardinale Achille Ratti. Con gesto dirompente, Pio XI imparte la benedizione dalla loggia esterna di San Pietro, rimasta chiusa 52 anni dalla presa di Roma il 20 settembre 1870. La gente acclama «Viva il Papa, Viva Pio XI, Viva l’Italia». Sceglie come motto «Pax Christi in regno Christi. Pace di Cristo nel regno di Cristo»; conferma segretario di Stato il cardinale Pietro Gasparri: il 7 febbraio 1930 gli succederà il cardinale Eugenio Pacelli.
Un pontificato, durato 17 anni, decisivo nella storia del Novecento. Un difficile dopoguerra; quattro dittatori (Mussolini, Hitler, Stalin e Franco); la grande crisi del 1929; le guerre coloniali; la vigilia del secondo conflitto mondiale. È interessante notare che la prima lettera apostolica «Annus fere» (10 luglio 1922) è indirizzata a tutti i vescovi cattolici «affinché si adoperino per far fronte alle esigenze dei popoli russi travolti dalla fame e dalla pestilenza». La seconda e terza lettera sono sulla situazione italiana: «I disordini. Ai vescovi italiani affinché venga ristabilita la pace» (6 agosto 1922); «Ora sono pochi. Chiede ai vescovi italiani che venga ristabilita la pace» (28 ottobre 1922).
Il pontificato rattiano si riassume, da un unto vista politico, nell’opposizione alle dittature e ai tiranni con documenti incontrovertibili e nella conciliazione con l’Italia.
Benito Mussolini si dichiara rispettoso della religione e si impegna pubblicamente a difendere il cattolicesimo come religione «nazionale»: ciò non rassicura la gerarchia ecclesiastica. Molti uomini di Chiesa lo considerano un sovversivo «movimento massonico», pericoloso per la società civile e per la religione. Anche le manifestazioni di ossequio spesso sono solo esteriori e sono guardate con sospetto.
A padre Agostino Gemelli, che gli chiede quale comportamento tenere con il governo, Pio XI risponde: «Lodare no. Fare l’opposizione aperta non conviene, essendo molti gli interessi delle due parti. Ma occhi aperti». E al suo successore sulla cattedra ambrosiana, il cardinale Eugenio Tosi, che gli chiede consiglio su come comportarsi con il Partito popolare, Pio XI risponde: «Lei deve essere pastore religioso. Intervenga per correggere i devianti, ma lasci il partito libero di manovrare. Tenga rapporti di buon vicinato perché senza il partito potremmo far fagotto». E Tosi ai popolari milanesi dice: «Da tempo “La Civiltà Cattolica” ha previsto che i fascisti sarebbero divenuti pericolosi, e i gesuiti sono fini e vedono lontano».
I fascisti randellano anche le tonache di molti parroci
Emilio Gentile, il maggior storico del fascismo sostiene che «il duce in cuor suo disprezzava gli italiani. Voleva obbedienza e non consenso.
Sulla «marcia su Roma» lo storico Gaetano Salvemini racconta che un prete, assistendo da lontano a quella farsa che segnava la capitolazione della democrazia, riferendosi alla «breccia di Porta Pia il 20 settembre 1870, disse: «Noi Roma la difendemmo con maggior dignità». Don Luigi Sturzo, fondatore nel 1919 del Partito Popolare, individua anche la tonaca di «qualche prete sbracato e fanatico». Scrive lo storico Franco Molinari in «Olio santo e olio di ricino»: «Nessun cattolico militante, e tanto meno il clero, partecipò alla marcia su Roma». Assenza comprensibile se si pensa che nel programma del 1919 Mussolini incluse tra i suoi obiettivi l’incameramento dei beni ecclesiastici. Gli squadristi «spolverano» con i randelli le spalle non solo dei «bolscevichi», dei «conigli popolari», ma anche le tonache di molti parroci. Il 30 ottobre 1922 il re conferisce l’incarico a Mussolini che torna la sera stessa con l’elenco dei ministri. Il 31 ottobre, giorno della sfilata davanti al Milite Ignota da poco inaugurato, «Mussolini – scrive Molinari – chiede al Vaticano una Messa al campo per i legionari. A celebrare era stato invitato un cardinale filofascista al quale il segretario di Stato Gasparri consigliò di darsi malato».
Come Pio XI giudicò la rapida ascesa dei fascisti e del loro capo Benito Mussolini? Non è facile trovare risposte dirette. Si può coglierne il pensiero attraverso «L’Osservatore Romano» e «La Civiltà Cattolica». I cattolici vedono con preoccupazione il dilagare del fascismo e della violenza squadrista nella società italiana. Ai vescovi italiani Pio XI, considerando «le conseguenze di questa guerra fratricida», sottolinea la necessità della riconciliazione e della pace: «Nella tempesta immane continuate con zelo sempre più intenso l’opera vostra pacificatrice» (6 agosto 1922).
In contemporanea alla «marcia su Roma» rivolge un appello «alla pacificazione degli animi, alla cessazione delle lotte politiche, al ritorno all’ordine sociale» (28 ottobre 1922): «Ora sono pochi mesi solamente, dinanzi ai mali e alle lotte fratricide che funestavano il nostro diletto Paese, vi rivolgevamo un caldo appello, esortandovi a dirigere particolarmente la vostra pastorale sollecitudine all’opera di pacificazione degli animi e dei cuori. Ben sappiamo con quanta premura avete risposto al nostro invito; ma purtroppo la tanto desiderata tranquillità non è ancora tornata in mezzo al diletto popolo d’Italia, e l’animo nostro è di nuovo profondamente addolorato alla vista dei mali, ognor più gravi, che ne minacciano il benessere materiale, morale, religioso, ritardando sempre più il risanamento delle profonde ferite, doloroso strascico dei lunghi anni di guerra. Fedeli a quella missione di carità affidataci dal divin Redentore, sentiamo imperioso il bisogno di indirizzare nuovamente a quanti sono cittadini d’Italia una parola di carità e di pace. In nome di quella fratellanza che tutti li unisce nell’amore a questa terra benedetta da Dio, in nome specialmente di quella fratellanza più nobile, perché soprannaturale, che nella religione di nostro signore Gesù Cristo congiunge i figli d’Italia in una sola famiglia, a tutti gridiamo con le parole di Santo Stefano: “Uomini, siete fratelli; perché v’insultate l’un l’altro?”. Vogliate raddoppiare di zelo nell’opera santa di pacificazione, alacremente intrapresa. Esortate tutti quelli che sono affidati alle vostre cure a mitigare e, se occorre, a sacrificare per il pubblico bene i propri desideri, ispirandosi ai princìpi cristiani dell’ordine, e a quei sentimenti di carità, di mansuetudine e di perdono, dei quali il divino maestro ha fatto ai suoi fedeli legge suprema».
Il Papa costringe don Sturzo a dimettersi dal Partito popolare
Dopo la marcia su Roma gli squadristi sono arruolati nella Milizia volontaria per la Sicurezza nazionale. Don Sturzo dissente dalla partecipazione dei popolari Stefano Cavazzoni e Vincenzo Tangorra al governo di coalizione fascisti-liberali-nazionalisti-popolari. Lo dice a chiare lettere il 20 dicembre 1922, nel discorso alla Camera di commercio di Torino: riafferma la validità del regime democratico e parlamentare e manifesta preoccupazioni per il tentativo collaborazionista. Nel IV Congresso a Torino nell’aprile 1923 riesce a traghettare il Ppi all’opposizione. L’iniziativa sturziana scatena la violenza fascista contro i circoli del Ppi e della Gioventù Cattolica. Costretto da Gasparri, per volere di Pio XI, a dimettersi nel luglio 1923 da segretario del partito, sostiene la secessione dell’Aventino e la collaborazione con i socialisti in chiave antifascista. Lo stesso atteggiamento ha il Pier Giorgio Frassati.
Per Giovanni Battista Montini, giovane addetto alla nunziatura in Polonia, nella lettera al papà (15 luglio 1923) afferma che «il vessillifero (Sturzo) è caduto» e che le dimissioni sono «segno dell’immaturità politica dei cattolici italiani» ma – aggiungiamo noi – sono segno della tranquilla santità del fondatore del Ppi che il 7 luglio 1923 scrive al Papa: «Obbedisco». Nel 1924 – in obbedienza alla Santa Sede, come intima Gasparri al fratello Mario Sturzo, vescovo di Piazza Armerina in Sicilia: «Sturzo esca dal partito» (16 settembre 1924) – lascia l’Italia per Londra e dal 1940 per gli Stati Uniti. La storia del Ppi è breve e travagliata, dura solo sette anni (1919-26), sostanzialmente mal digerito, anzi contrastato, dalla Santa Sede, «totalmente estranea al partito», ed è sciolto dai fascisti il 9 novembre 1926.